Con un fastidioso formicolio nelle mani dettato dalla rabbia, spalanco la porta di casa e mi ci fiondo dentro. Se Ryan crede di poter giocare con me, si sbaglia di grosso. Ho intuito che prova un certo divertimento nel provocarmi ma può levarsi dalla testa di usarmi come passatempo.
Per questa volta ho lasciato correre. Dopo quel commento allusivo ho ripreso a lavorare senza degnarlo di uno sguardo e tanto meno di una parola, ma a lui non è sembrato pesare perché ha assecondato senza problemi il mio silenzio. Meglio così.
«Dove sei stata?» Mi raggelo all'istante quando la domanda raggiunge i timpani, che iniziano a fischiare. Ruoto il busto verso il divano dove trovo mio padre disteso, con una gamba allungata sulla chaise long e una bottiglia di birra in mano. La sorseggia guardando un film ambientato nel selvaggio West.
«All'università» rivelo in tono monocorde. Non mi sembra ubriaco, o almeno non ancora.
«E torni a quest'ora?» Guardo l'orologio appeso sul muro. Sono solo le 17:02.
«Alcune lezioni sono di pomeriggio» lo informo come se non lo sapesse già. Da ciò intuisco che non è completamente lucido.
«Ti diverte stare in giro, eh?» Non rispondo, mi limito ad abbassare lo sguardo quando lui si alza dal divano per raggiungermi. Trattengo il fiato ed inizio a contare i secondi di pura agonia.
«Non sei mai a casa.... lo capisco, vedi. Che mi eviti come la peste.» Adesso è di fronte a me. Incastra, con l'indice e il pollice, il mio mento che solleva verso di lui. Mi perdo nei suoi occhi scuri che, da anni, ho smesso di riconoscere. La barba trascurata è caratterizzata da peli bianchi che accennano ai primi segni di vecchiaia.
«Hai paura?» La voce roca a causa del fumo esce cruda dalle labbra screpolate, accompagnata dall'alito che sa di alcol e a cui ho fatto l'abitudine. Odio il fatto che fumi. Non ha imparato niente dalla morte di mia mamma, la cui causa principale sono proprio quelle merde di sigarette. Ma ho smesso di interessarmi alla questione già da un po', nello specifico da quando ho smesso di riconoscerlo come mio padre.
«No» rispondo secca, ma so che dal mio sguardo intravede il terrore brillare nelle iridi azzurre.
«Neanche tua madre sapeva mentire» e mentre accarezza la mia guancia e sento il disgusto perforarmi lo stomaco, la sua bocca compone un sorriso sbieco che, presto, lascia spazio a una smorfia disgustata.
«Ti odio. Mi hai rovinato la vita» ammette prima di lasciarmi lì, in piedi, paralizzata, a fissare il vuoto e a domandarmi se quella frase fosse rivolta solo a me o anche alla figura di mia madre che vede impressa.
Tiro un sospiro di sollievo mentale quando realizzo che, per oggi, era finita là. Ci sono stati giorni in cui ha mostrato tutto il suo lato peggiore, e oggi non è uno di quelli. Ma non aspetto che si ricordi che non mi ha sputato abbastanza il suo odio, così quasi scappo e mi rinchiudo in camera mia. Mi getto sul letto e copro il mio volto con il cuscino che stringo, stringo, stringo fino a quando non mi manca il respiro. Solo a quel punto lo butto a terra, spalancando le braccia sul materasso e fissando il lampadario a luci LED.
Mi perdo così nel vuoto della mia vita, senza riflettere o pensare a niente. Mi incanto a guardare l'intensa luce artificiale fin quando non avverto un leggero fastidio agli occhi.
Persa. Così mi sento. Mi sento sola, smarrita, senza un obiettivo da conseguire, adattandomi alle situazioni che la vita mi pone davanti senza lottare. D'altronde, per cosa dovrei combattere?La suoneria del cellulare mi risveglia dall'oblio in cui ero caduta.
«Pronto?» borbotto, rispondendo alla videochiamata di Rachel.
«Disturbo?» Solo adesso ricordo che l'avrei dovuta chiamare. Scuoto la testa. «No, sono appena arrivata a casa. Ti stavo giusto per chiamare.» Piccola bugia.
STAI LEGGENDO
Alive
RomanceKaylee Carter aveva solo dodici anni quando sua mamma venne a mancare. Da quel giorno niente fu più lo stesso, tutta la realtà a cui si era abituata si sgretolò in uno schiocco di dita. Sette anni dopo, Kaylee non è più la bambina vivace di un temp...