CAPITOLO TRENTACINQUE

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GIADA

"E fu così che dal caos nacque una vera e propria apocalisse."

Dopo che io e il ragazzo eravamo tornati in hotel, avevamo passato una notte travolgente e avevamo fatto nuovamente le valigie, dato che quella mattina saremo dovuti partire per andare in Sardegna per festeggiare Capodanno insieme e per visitare il posto.

«Signori e signore, benvenuti in Sardegna, a Cagliari.» Dissero gli altoparlanti, parlando in una lingua che supposi fosse l'italiano.

«Siamo arrivati.» Confermò l'uomo seduto vicino a me, osservandomi attentamente.

Aveva indosso un semplice maglione nero che non lasciava molto all'immaginazione del corpo che copriva, dei pantaloni grigio scuro e delle scarpe dello stesso colore del maglione.
I suoi capelli erano abbastanza ordinati e mi dovevo ancora decisamente abituare al suo nuovo colore, nonostante mi piacesse molto.
I suoi occhi riuscivano sempre a farmi perdere il respiro e le sue labbra riuscivano sempre a confondere ogni mio pensiero razionale.
No, non mi sarei mai abituata.

Io gli sorrisi e mi alzai, sistemandomi il cappotto pesante per la temperatura fresca di fine dicembre.
Solo io e Riftan potevamo andare in Sardegna in pieno inverno, solitamente le persone amano la spiaggia, il sole, amano le temperature calde..ma ero sicura che il ragazzo amasse la pioggia, il gelo, la tristezza e la quiete che l'inverno porta con sé.

E io non potevo fare a meno di accontentarlo, perché nonostante io amassi molto il sole ero sempre stata abituata ai temporali e ai climi freddi.

Riftan si alzò e immediatamente venni sovrastata dalla sua notevole altezza, decisamente superiore alla mia, dettaglio che ogni volta mi faceva sentire dannatamente in soggezione, ma anche estremamente protetta.
Protezione che non avevo mai ricevuto da nessuno.

Finalmente riuscimmo ad uscire dall'aereo senza troppe parole, ma provai ad intrecciare le mie dita con quello del ragazzo e stranamente lui non mi allontanò, accogliendo la mia silenziosa richiesta di un minimo contatto, che mi trasmise calore nel petto.

Era come se avessi il costante bisogno di avere un contatto con lui, come se per stare bene dovessi sentire la sua pelle contro la mia, il suo fiato contro il mio e le sue labbra incatenate alle mie.
Uriel mi aveva corrotta.
E Riftan non aveva fatto niente per cambiare questo fatto, ma aveva fatto di tutto per farmi ossessionare ancora di più di lui.

«Sei estremamente silenziosa, non è un buon segno.»
«Sto solamente pensando.»
«Ripeto, non è un buon segno.»

Alzai gli occhi al cielo e ridacchiai, quando finalmente dopo pochi minuti di strada entrammo all'aeroporto di Cagliari.
Mi guardai intorno e sorrisi, notando tutte le indicazioni indicate in una lingua diversa dalla mia; l'italiano.
Avevo sempre voluto imparare l'italiano, ma mi accontentavo di sapere il francese e l'inglese.
Mia mamma quando ero più piccola mi parlava solo francese, mentre mio padre l'inglese, infatti avevo imparato entrambe le lingue sin da piccola.

«Signori, ecco le vostre valigie–»
Mi voltai verso un uomo dall'accento italiano marcato, vicino alla zona dove si sarebbero dovuti ritirare i bagagli di stiva, notando che effettivamente aveva con sé i bagagli di me e Riftan.
«Grazie.» Ringraziò il ragazzo, staccandosi dal nostro contatto e prendendo entrambe le valigie senza difficoltà.
Io alzai un sopracciglio e lui ghignò.

«Per prendere i bagagli ci si impiega sempre troppo tempo», si giustificò, facendomi sospirare.

Doveva sempre avere tutto sotto controllo, non riusciva mai ad abbassare la guardia, lo vedevo dai suoi comportamenti, dai suoi occhi e persino dall'attenzione con cui formulava ogni singola sillaba, anche se affilata e dolorosa.
Non riusciva a rilassarsi nemmeno in vacanza, non riusciva a dimenticare nemmeno per un singolo istante il ruolo che gli apparteneva.
Il controllo invece gli scappava quando la rabbia lo avvolgeva. Non aveva idea di cosa fosse, il controllo, in quei casi.

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