CAPITOLO DODICI

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GIADA

"Non troverai mai la verità
se non sei disposto ad accettare
anche ciò che non ti aspetti"
~Eraclito

Arrivata a casa mi trovai immersa da mille dubbi, mille dubbi che mi fecero quasi impazzire.
Non riuscivo a capire cosa stesse insinuando Uriel, cosa stesse cercando di dirmi con le sue parole enigmatiche.

"Prima o poi lo verrai a scoprire" la sua frase continuava a rimbombare tra i miei pensieri e non riuscivo a darmi nessuna risposta.

Voleva forse dire che..non pensava fossi un'umana?
Ma aveva detto tutto in modo molto implicito, perché io non avevo mai accennato una sola parola sui Warui.
Era tutto così contorto e sbagliato.

Perché era impossibile una tale cosa.
Impossibile.

I dubbi continuavano a tormentarmi e quindi decisi di agire.
C'era una sola persona che poteva aiutarmi a chiarire i pensieri.
Mia madre.

Non la sentivo ormai da tempo, esattamente da quando avevo iniziato a lavorare nel carcere.
Avevo paura di parlarle, di confrontarla, perché ero timorosa di un suo possibile giudizio.

Ma era arrivato il momento di chiamarla.

Presi il mio cellulare e feci il suo numero, ma dopo molti squilli comunque nessuno rispondeva.

«Risponde l'infermiera Giselle al telefono della signora Céline. Chi parla?» chiese una voce femminile e dal forte accento britannico.

«Sua figlia, Giada.»
Che stava succedendo?
«Uhm, ascolta bene, tesoro. La mamma sta avendo un momento difficile ora come ora, non se la sente di parlare al telefono.»

Cosa? Cosa intendeva?

No, no, no.
No no no no no no no no.

Era tutta colpa mia, tutta colpa mia..cazzo.
Non avrei dovuto lasciarla da sola in Inghilterra e non avrei dovuto evitarla, porca puttana. Ero una stupida, una figlia terribile.
L'avevo trascurata..
Come avevo potuto..

«Che intende? Che sta succedendo?» domandai, già pronta a fare le valigie per tornare a Londra.
«La sua malattia è passata in qualche modo al secondo stadio. È una malattia di cui non si è mai sentito parlare e molto probabilmente deriva da delle strane cicatrici che ha sul corpo, come se fossero collegate al suo sistema nervoso e come se fossero letali per lei.» spiegò, cercando di essere il più chiara possibile.

«Cicatrici? Di che sta parlando?»

La sua malattia derivava da un problema cerebrale che aveva sin da piccola.
O almeno, quello era ciò che mi aveva sempre detto.

«Sono dei segni che abbiamo notato solo da poco sul suo corpo, segni molto strani e dal colore ambiguo..abbiamo fatto degli esami e abbiamo ideato la nostra teoria. Sono state incise tempo fa e molto probabilmente con qualcosa che..» passarono degli istanti di silenzio, «non lo sappiamo, fatto sta che stanno distruggendo piano piano la sua ragione, le stanno strappando di mano la vita.» sussurrò, tristemente.

«Non è ancora in pericolo di morte, ma adesso la stiamo tenendo sotto controllo e non è ancora in grado di parlare normalmente.»

«Di che colore sono le cicatrici?»
«Nero scuro, tendente al viola»

Annuii e la ringraziai chiudendo la chiamata, per poi scoppiare a piangere.
Era tutta colpa mia.
Non dovevo lasciarla da sola.

Le lacrime iniziarono a farsi strada sulle mie gote arrossate e non mi preoccupai di fermarle.
Perché la mia armatura si era appena frantumata in mille pezzi.

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