25. IL PANNO SPORCO

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Quel pomeriggio aveva iniziato a piovere a dirotto. Berenice, inginocchiata nell'atrio principale, sfregava il pavimento con uno strofinaccio, ammirando lo spettacolo dei giardini inondati da un improvviso temporale. Il portone spalancato le offriva una vista mozzafiato: un cielo plumbeo, solcato da nuvoloni scuri, e un giardino rigoglioso, dove l'erba bagnata e i gazebi di fiori, con la fontana e le statue, creavano un'atmosfera quasi poetica. Un tempo, al convento, avrebbe dato di tutto per riuscire a immortalare un simile panorama. Ma ora... non sapeva nemmeno se sarebbe più stata in grado di dipingere.

Non aveva più potuto dipingere da quando la sua vita era cambiata drasticamente. Non che dipingere fosse una priorità in quel momento, ma le sarebbe piaciuto immergersi nei piccoli mondi che ritraeva con le dita, distrarre la mente dai pensieri che la assillavano. Anche solo per poche ore. Il solo fatto che fossero passati appena pochi giorni dalla sua vita al convento, dalla vita che aveva sempre creduto essere la normalità, le metteva i brividi. Perché nonostante tutto, Berenice aveva creduto per ben sedici anni che il convento fosse la sua casa, che vivere con quelle suore fosse la realtà della sua vita. Eppure, le sembrava che fossero trascorsi anni da tutto quello.

Quando la sorvegliante Pimpolbotton entrò nell'atrio principale, impegnata in una conversazione con una delle governanti, Berenice si affrettò a rimboccarsi le maniche prima di ricevere l'ennesima punizione. La preoccupazione evidente sul volto della governante però stuzzicò la sua curiosità, spingendola a tendere l'orecchio in ascolto. Non era mai stata una gran ficcanaso, ma la verità era che si stava annoiando a morte.

«Signora sorvegliante, il cielo non dà cenni di miglioramento e una delle classi del terzo anno è fuori ormai da più di mezz'ora. Credevamo che il professor Cirone li avrebbe fatti rientrare al primo segno di maltempo,» iniziò a dire la governante che per l'apprensione aveva preso a rimboccarsi le mani, lasciando in mostra le braccia grassocce. «Non è sicuro nemmeno per dei giovani guerrieri esporsi ad un simile tempaccio, ahimè! Potrebbero prendersi un malanno!»

La sorvegliante, però, parve liquidare le preoccupazioni della donna con un cenno della mano. «Non vi è motivo di preoccupazione,» rispose, come se ciò che stesse farneticando la governante non fosse né rilevante né degno di nota. «In guerra non si cessa mai di combattere o di volare per un po' di pioggia. Senza considerare le missioni, dove le condizioni meteorologiche giocano un ruolo cruciale per attacchi a sorpresa e furtivi. Sapranno cavarsela egregiamente tutti quanti.»

«So che stanotte vi sarà la prova all'anfiteatro, non sarebbe meglio rimandarla? Qualcuno potrebbe...»

«Ma non dite assurdità!» Berenice sobbalzò a quel tono di voce. «La prova all'anfiteatro si farà eccome. Nulla e dico nulla potrebbe spostare la prova di questa sera. E voi non dovreste mettere il naso in queste cose, non è certamente di vostra competenza.»

«Vedo qualcosa muoversi tra la pioggia...» annunciò la governante. «Oh, grazie agli Dei, sono loro! Vado subito a preparare un infuso caldo!»

Berenice si sporse in avanti, lasciando cadere a terra lo strofinaccio. Dal portone spalancato, tra la pioggia battente, intravide delle sagome sfocate correre nei giardini. Le loro risate fragorose giunsero fino a lì, spingendola ad allungare ancor di più il collo per cercare di vederli meglio.

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