XXV. Mentire

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Entrai in biblioteca dopo la fine delle lezioni. Non era molto grande e nemmeno ben fornita. Notai pochi volumi di narrativa, si trattava più che altro di saggi o trattati scientifici e di psicologia. Tuttavia, i libri sembravano in buono stato. Mi avventurai tra gli scaffali di metallo in cerca di ispirazione, e poco dopo riemersi con un manuale di economia di base e un saggio su Adam Smith. Contavo di concludere il compito entro il weekend. L'argomento mi interessava, ma avrebbe richiesto più impegno del previsto. Trovai subito posto accanto a una finestra che dava sul cortile, ma dopo aver visto Amélie seduta qualche tavolo più avanti, decisi di spostarmi. Avevo bisogno di farmi perdonare per essere stato tremendamente scortese, anche se ancora non avevo un'idea su come riuscirci. 

- Posso? - chiesi indicando la sedia vuota vicino a lei. Amélie annuì, spostando alcuni libri per lasciarmi spazio sulla scrivania. Diedi un'occhiata al suo arsenale di post-it e matite colorate. Era più fornita di una cancelleria. 

Sfogliai le prime pagine del saggio, prendendomi la libertà di sottolineare a matita e scribacchiare appunti lungo i margini. Quando rialzai lo sguardo, incontrai gli occhi curiosi di Amélie. 

- Hai già deciso l'argomento? - domandò curiosa. 

- Pensavo di focalilzzarmi sulle origini della crisi e meno sulla crisi in sè.

- Un'analisi eziologica? 

Annuii. - Sarà un approfondimento sulla gestione delle banche nel dopoguerra fino allo scoppio della bolla immobiliare. 

- Caspita. Mi pento di non averci pensato prima io -, meditò scherzosa. 

- E tu?

- Approccio Keynesiano -, rispose mostrandomi la copertina del suo manuale. - Pensavo di aggiungere uno studio sul funzionamento delle istituzioni finanziarie odierne, ma non so se è una buona idea. 

- Secondo me è un buon collegamento -, la incoraggiai. 

Mordicchiò l'estremità della matita. - Ci penserò su. 

Così passò il pomeriggio, pagina dopo pagina. Amélie era così silenziosa mentre studiava che ogni tanto avevo bisogno di controllare che fosse ancora al suo posto. A volte, invece, il fruscio dell'inchiostro che fregiava la carta erano la prova onerosa della sua presenza. Volevo sapere di cosa avessero parlato lei e Lenny, ma non sapevo come fare a chiederglielo. Il primo tentativo non era andato a buon fine. Mi tornarono in mente i suoi occhi furenti, e per un momento mi rabbuiai. Doveva per forza esserci una maniera più semplice. Amélie si era nascosta dietro i capelli corvini, sipario che mi aveva impedito di sbirciare le espressioni del suo viso. Fece un leggero mormorio contrariato, iniziando a giocherellare nervosamente con il pulsante della sua penna a inchiostro, premendolo ripetutamente.

- Smettila - le intimai, incapace di tollerarne il suono. 

- Di fare cosa?

- Questo. - rubai la penna dalle sue mani, facendo cessare quel ticchettio abominevole. - Mi innervosisce.

- Ehi! Ridammela! - tentò di riprenderla, ma senza successo, perché l'avevo già nascosta.

 - Adesso è mia. 

Mise il broncio, ma quasi immediatamente ne prese un'altra dal portapenne e ricominciò a scrivere. Aggrottò la fronte, tornando a concentrarsi. Ci provai anch'io, ma con scarsi risultati, perciò ricominciai ad osservarla.

- Sei ancora arrabbiata? - Le chiesi con quanta più calma avevo.

Non mi rispose subito. Interruppe la lettura, segno che ci stava pensando. - Un po'.

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