XXVI. Ingannare

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Guardai fuori dal finestrino incapace di sopportare la tensione che si avvertiva dentro l'abitacolo. Il sole stava per tramontare. Se chiudevo gli occhi e mi concentravo riuscivo ancora a percepire l'eco delle minacce di Grace. Erano state un fulmine a ciel sereno, e ormai mi sembrava chiaro: più cercavo di fare bene le cose, più il destino mi remava contro. Avevo smaltito la rabbia, ora rimaneva soltanto la rasegnazione. Non c'erano molteplici soluzioni, ma soltanto una: proteggerla. Proteggerla era il mio unico scopo. 

La voce di Grace spezzò il flusso di quei pensieri.
- Devi venire con me - disse. Appoggiò di nuovo le mani sul volante, fissando fuori. 

-Dove?

- Al quartier generale.

- E perché?

Allentò la presa, tamburellando con le dita. - Dobbiamo risolvere un problema. 

- Dopo tutte le minacce hai anche la faccia tosta di chiedermi aiuto? 

- Ti sbagli - disse sospirando, e il motore prese vita con un rombo. - Non te lo sto chiedendo.

L'auto sfrecciò di nuovo, superando pericolosamente un furgone per immettersi nella superstrada. Trattenni il respiro mentre Grace guidava con decisione, sfruttando il clacson come un ariete per incitare le code e passare davanti a tutti, ovunque fosse necessario.

Per un attimo ero rimasto in contemplazione di quell'edificio monumentale. La Sniper era un complesso di ottantasette piani, talmente immenso da potercisi perdere. Se mai la polizia avesse provato ad indagare, di sicuro trovare degli agenti in incognito disseminati in tutto quel via vai sarebbe stato difficile. Questo pensiero mi rassicurava, in un certo senso.
Non c'era nulla di sospetto riguardo alla sua architettura. Porta girevole a doppia anta, anch'essa in vetro, decorata con intarsi d'ottone. L'interno era moderno, più di quanto immaginassi. Pensai a Sam. Chissà se in quel momento si trovava lì da qualche parte.
Io e Grace superammo un corridoio infinito costeggiato da uffici prima di raggiungere le scale dall'altro lato. Salii due gradini per volta aggrappandomi energicamente al corrimano. 

- Ricordami di nuovo perché non abbiamo preso l'ascensore - chiesi tra una rampa e l'altra.

- Te l'ho detto, soffro di claustrofobia - Si giustificò senza un accenno di fatica.

- Forse non dovresti svelarmi così facilmente i tuoi punti deboli... 

Terminate le scale rallentammo il passo. Grace mi condusse nella Sala Controllo, dove una decina di schermi proiettavano le riprese di tutte le telecamere di sorveglianza installate nel palazzo. La stanza era piccola, buia. L'arredamento ridotto ai minimi termini. Sedia girevole, scrivania. Per qualche motivo c'era odore di inchiostro.

- Ehi, Grace - la salutò un uomo sulla cinquantina con il pizzetto e gli occhiali da vista.

- Jared.

- Sei venuta a darmi il cambio? - chiese per scherzo, ma riuscii a cogliere una sfumatura speranzosa.

- Già. Tornatene a casa, qua ci penso io.

Con una spinta fece scivolare indietro la sedia.  - Che cosa? Dici sul serio?

Grace sorrise, uno dei sorrisi più falsi e convincenti che avessi mai visto.
- Certo. È il compleanno di tua moglie tra qualche giorno, o sbaglio? Va' a prenderle un regalo.

Il viso di Jared si illuminò e rivolse a Grace un'espressione grata. Preparò la borsa, impilò dei documenti in un angolo della sua scrivania e accartocciò un bicchierino da caffè oramai vuoto per buttarlo nel cestino.

- Allora io vado. Grazie ancora Grace, ci vediamo domani.

- A domani - fece lei di rimando. 

- Ciao anche a te, ragazzo - mi salutò con gentilezza, ed io risposi con un cenno del capo.

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