XXXV. Tutto è bene quel che finisce (quasi) bene

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Raggiungemmo la terrazza dopo quella che mi parve un'eternità. L'aria serale era frizzante, il cielo plumbeo. Mi ricordava la mia infanzia con mio padre, quando d'autunno insisteva per accompagnarmi a visitare la città immersa nei colori e nelle luci. Era un pensiero malinconico, ma si trattava di un ricordo felice, e non avevo motivo di lasciare che l'amarezza del presente lo contaminasse. Mi chiesi soltanto se anche lui, da qualche parte, stesse osservando questo cielo senza stelle.

Osservai Amélie scoprendo che i suoi occhi erano già da parecchio in ricerca dei miei, e subito mi sentii pervadere da una sensazione di tranquillità. Il vento fresco le pizzicava le guance, colorandole di scarlatto, muovendo debolmente le piccole ciocche corvine sfuggite alla sua treccia. Guardarla era il miglior calmante, bastava a farmi dimenticare quando la mia vita fosse un disastro.

- Davvero non vuoi andare al college?-, mi chiese dopo un momento di silenzio.

Annuii. Non avevo mai preso in considerazione l'idea di andare al college, o forse sì, ma non troppo seriamente. L'eventualità non mi stuzzicava; la speranza in un futuro più roseo aveva smesso di affascinarmi ormai da molto tempo. 
Comportarsi bene, studiare e impegnarsi. Se quella fosse stata davvero la ricetta della felicità, di sicuro mi ci sarei buttato anch'io, ma la verità è che la vita o si dimostra benevola, o è avversa per le persone. Non segue quasi mai un criterio logico e meritocratico. Io con Amélie al mio fianco mi sentivo felice, eppure non lo meritavo.

- Ma è un peccato.-, affermò lei. - Hai una bella testa, dovresti sfruttare il tuo potenziale.

- Perché scusa?-, sorrisi prendendole una mano per scaldarla. - Non sono ambizioso, non ne vedo il motivo.

- Nemmeno io ho grandi ambizioni, ma immagino si tratti comunque di una bella esperienza.- disse, giocherellando con le mie dita. - Mio padre e mia madre si sono conosciuti al college, perciò me l'hanno sempre dipinto come un qualcosa che ti cambia la vita. Non so fino a che punto dare credito alle loro parole, ma è bello sentirli raccontare mentre negli occhi hanno la stessa complicità.

- A che età si sono sposati?-, m'incuriosii. Era un po' che non le sentivo raccontare qualcosa di sé, e tutt'a un tratto pendevo dalle sue labbra. Volevo conoscerla, questo era quanto.

- Mia madre è rimasta incinta quando aveva ventisei anni, mio padre ventinove. Si sono sposati due anni dopo la mia nascita, ad Atlanta. Nelle foto del loro matrimonio ci siamo anche io e Jason, ma grazie alla mia bellezza folgorante sono riuscita a rovinare l'intero album.

- E perché mai?

Valutò se fosse il caso di darmi o meno una risposta, poi si rassegnò a confessare. - Ero enorme, a stento non mi scambiavano per un animale domestico.

Mi trattenni e soffocai un risolino. - Non ci credo.

- Invece sì.-, ribadì. - Mia madre ha persino detto che, alla nascita, i medici si erano preoccupati di non riuscire a tirarmi fuori, tanto ero grossa. Jason invece era un fuscello, microscopico e secco, avevano paura che di notte potesse venirmi improvvisamente voglia di mangiarlo.

- Povero Jason -, scherzai. 

- Se solo mia madre smettesse di mostrare in giro quelle foto... Non è divertente sentirsi dire "ma chi è questo bel bambino pacioccone" da degli sconosciuti. Nemmeno il sesso azzeccano!

- Detto sinceramente, anche a me ogni tanto vengono dei dubbi... Posso controllare?-, buttai l'occhio sulla sua casta scollatura, ma lei ostacolò il mio sguardo coprendosi con un braccio.

- Stasera sei un po' indeciso, eh?-, mi prese in giro. 

- E dai, scherzavo.-, Sorrisi, e mi avvicinai fino a far sfiorarle il naso con il mio.- Se alla fine crescono così, sui neonati lardosi ci metto la firma.

DARK SOULDove le storie prendono vita. Scoprilo ora