XXVIII. Anima

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L'uomo robusto e nerboruto di guardia all'ingresso mi squadrò dalla testa ai piedi, scoccandomi un'occhiataccia che, con molto buon senso, decisi di non ricambiare. Anche senza la mia solita acume avevo capito che non era il caso di ritrovarsi con un naso rotto per un motivo tanto idiota, perciò continuai per la mia strada finché non fu il suo braccio a impedirmi di proseguire.

- Li hai almeno diciassette anni?
Chiese con voce greve e spenta. Era annoiato, questo si capiva, e senza dubbio la mia risposta non avrebbe influenzato, né movimentato, la sua serata.

- Sì.

- Allora divertiti - si scansò dalla porta per lasciarmi passare, sospirando copiosamente prima di incrociare le braccia dietro la schiena.

- Ne dubito - replicai a voce bassa

- A chi lo dici, ragazzo. - Accennò un sorriso. - A chi lo dici.

Scossi la testa prima di entrare, scrollandomi di dosso le prime gocce di pioggia che erano precipitate silenziosamente.

L'aria all'interno del piccolo locale sotterraneo era impregnata di un sentore intenso, indefinito, ma non sgradevole come invece credevo. Sapeva di legno, inaspettatamente.

- Scusa - dissi infastidito urtando l'ennesimo corpo in movimento, consapevole che non avrebbe comunque potuto sentirmi per colpa di tutto il baccano circostante. Avanzai ancora qualche passo, continuando a scansare matasse di ragazzi scatenati, osservando con attenzione e assimilando lentamente i dettagli del locale. 

- Cameron? - cinguettò una voce stridula, sfortunatamente non quella che speravo di sentire. Mi voltai, intenzionato a liquidare chiunque si trovasse alle mie spalle. Gwen Stanley, fisico slanciato ma mediocre, capelli ossigenati e rigorosamente tinti, in due mesi non era ancora riuscita a far ricrescere quelle tremende sopracciglia.

- Sì?
Il mio tono di voce rasentava la noia. No, non la rasentava, la esprimeva chiaramente.

- Non mi aspettavo di trovarti qui - Sorrise. - Non ci siamo mai presentati, io sono Gwen, frequentiamo la stessa sezione di biotecnologia e letteratura inglese.

- Lo so.

Non capii cosa avesse fatto improvvisamente da interruttore al suo buonumore, ma la sua espressione era diventata, se possibile, ancora più stomachevole e felice.
- Davvero?

- Sì - risposi freddamente. Forse in questo modo stavo alimentando le sue aspettative. Meglio assassinare in tempo la sua nascente passione per i ragazzi tenebrosi, tutto quel fantasticare non l'avrebbe portata da nessuna parte.

- Perché non mi accompagni a prendere qualcosa da bere? - chiese mantenendo il sorriso raggiante, spostandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Sentivo i suoi occhi scorrermi addosso in modo fastidioso, fermandosi a fissare prima la mia bocca, poi il collo, senza preoccuparsi di risultare sfacciata.

- Dubito sia una buona idea. - Ridacchiai, ricordando solo in quel momento quanto fossi ubriaco. Gettai qualche occhiata impaziente al bancone e al palco in cerca di qualche volto familiare.

- Cerchi qualcuno? - chiese a quel punto, non potendone più della mia indifferenza.

- In realtà, sì - le risposi. Lei parve rabbuiarsi, esitando un istante, indecisa se andarsene e conservare la sua dignità, oppure dar voce alla sua curiosità. 

- E chi?

- Non sono affari tuoi. 

- Niente. - Sbuffò. - Se cerchi Amélie l'ho vista vicino al palco.

- Gentile - le mie labbra rivelarono un mezzo sorriso.

- Certo che i tuoi gusti sono davvero pessimi, lasciatelo dire -, disse, spingendosi verso il mio orecchio per contrastare la musica assordante.  Poi sbuffò, andandosene da un'altra parte, seccata.

DARK SOULDove le storie prendono vita. Scoprilo ora