28.

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Gabbia


Mi risvegliai sul lettino di un'infermeria. Al contrario dell'ultima volta in cui mi ero trovata in un posto del genere, dopo l'attacco di Paul, non ero legata a macchinari. Mi tirai su, la testa non girava più, ma io ugualmente afferrai un bicchiere d'acqua sul comodino accanto al letto. Bevvi, era acqua e zucchero. Solo in quel momento vidi Justin seduto a una sedia, con la testa china, si stava guardando le mani fasciate. Mi schiarii la gola e ottenni la sua attenzione. Lui lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e corse verso di me.
-Come ti senti?
Chiese afferrandomi una mano. Le sue mani, in confronto alle mie, erano calde e accoglienti. Sfortunatamente buona parte dei palmi era coperta da fasciature sporche di sangue in alcuni punti. Se lo avessi aiutato, invece di fuggire, lui non avrebbe colpito il muro tutte quelle volte.
-Non dovevo andarmene, scusa.
Lui mi ignorò e mi accarezzò la mano.
-Non ci pensare più, come ti senti adesso?
Ignorai la sua domanda.
-Ma non è questo il punto. E' da giorni che tu hai perso la società per colpa mia e io, invece di aiutarti, mi comporto da vittima.
Justin scosse la testa.
-Se ho perso la società è tutta colpa mia. Tu sei finita da Daniel per colpa mia, io ti ho venduto.
Justin sembrava convinto di quello che diceva, eppure stava dimenticando qualcosa di fondamentale.
-Tu non mi avresti venduto se io non avessi distrutto la società.
Puntualizzai.
-Ti sentivi in colpa per quel ragazzo che usavamo come cavia, pensi che io non mi sia mai sentito in colpa per avere ucciso qualcuno? Ti ricordo che per più di quindici anni ho creduto di avere ucciso mia madre, so le conseguenze a cui portano i sensi di colpa.
Mi aveva praticamente urlato contro, tanto che mi stavo per mettere a piangere, di nuovo, ma cercai di cacciare indietro le lacrime, non volevo più sembrare la vittima.
-Non urlare.
Sussurrai, cercando di evitare lo sguardo di Justin.
-Scusa, è solo che credevo che questo argomento fosse chiuso. Non è colpa di nessuno se siamo in questa situazione, ormai tutti abbiamo pagato le conseguenze e siamo sulla stessa barca.
Il suo tono era ancora duro, ma si addolcì non appena il mio sguardo si incontrò con il suo.
-Va bene, coltellina?
Mi pizzicò una guancia e io non potei fare a meno di sorridere. Allungai un braccio dietro di lui e lo avvicinai a me, stringendolo forte.
-Anche io.
Dissi premendo la guancia contro il suo corpo. Lui mi schioccò un bacio sulla fronte.
-Che cosa anche io?
Chiese.
-Quando sono fuggita via, prima di sbattere la porta, ho sentito che hai detto di amarmi. Ti amo anche io.
Spiegai, mi allontanai da lui e lo guardai in faccia. Sorrideva, uno di quei sorrisi sinceri che non gli vedevo sulla bocca da tanto tempo. Gli afferrai il polso e mi concentrai sulle sue ferite, quando gli sfiorai le nocche, emise un gemito e fece una piccola smorfia.
-Scusa.
Dissi lasciandogli la mano immediatamente.
-Non ti preoccupare, tu non hai fatto nulla.
Mi accarezzò la testa con delicatezza, non sapevo se era perché avesse paura che potessi sentirmi nuovamente male o perché gli dolessero le mani. Avrei voluto chiederglielo, ma magari poi mi avrebbe reputato ancora una volta appiccicosa, così rimasi in silenzio a contemplare le mie, di mani.
-Perché sei così silenziosa?
Mi chiese Justin sedendosi sul letto accanto a me.
-Non vorrei darti fastidio, tutto qui.
Scrollai le spalle e mi scansai per dare più posto a lui.
-Quinn, tu non mi dai mai fastidio.
Si stese accanto a me e si infilò sotto le coperte, abbracciandomi. Appoggiai la fronte sul suo petto e mi sentii improvvisamente protetta e non più in colpa per ogni minima cosa che avevo fatto.
-Se ti riferisci a quando ti ho detto che sei appiccicosa, non lo pensavo davvero.
Alzai lo sguardo verso di lui.
-Invece sì, se lo hai detto ci doveva essere un fondo di verità.
Justin sospirò.
-Ok, un po' è vero, voglio dire, quando ti dico di fare qualcosa tu non ubbidisci mai e fai sempre di testa tua, sei troppo impulsiva e qualche volta anche permalosa.
Davvero pensava tutte quelle cose di me? Non potei fare a meno di guardarlo con la bocca semichiusa.
-Nonostante ciò, io ti amo proprio per questo.
Justin sorrise e io, probabilmente, arrossii. Per me era importante quando Justin diceva di amarmi, perché non lo faceva spesso, ma se lo diceva era perché gli usciva dal cuore.
-Ti amo con tutti i tuoi difetti.Anche io non sono perfetto, dopo tutto.
Non potei non esprimere ciò che pensavo.
-Il tuo più grande difetto è quello di preoccuparti troppo per me.
Justin intrecciò la sua gamba destra alla mia, sotto le coperte.
-Non è vero.
Sbuffò.
-Invece sì, dovresti pensare più a te stesso.
-Quinn, ho trascorso sei mesi senza di te. E' normale che adesso la mia mente sia completamente concentrata su di te.
Aveva ragione, anche io, dopo essere stata in India, sentivo il desiderio di stare accanto a lui in ogni ora della giornata. Avrei preferito parlare con lui per recuperare il tempo perso, invece di sprecare ore a dormire la notte.
-E non posso affrontare la paura di perderti di nuovo.
Justin alzò una mano fasciata e la girò per osservarla da più punti di vista.
-Perdermi di nuovo?
Chiesi, perché mi avrebbe dovuto perdere? Daniel non ce l'avrebbe mai fatta a dividerci di nuovo, anche se ci provava, il nostro amore era più forte di tutto.
-Sì.
Disse Justin abbassando la mano. Dopo cominciò a spiegare, mentre io mi agitavo sempre di più.
-Hai notato che nessuno mi prende più sul serio? Era già pericoloso stare qui per te, quando ero il capo. Adesso è mille volte peggio.
Continuai a fissare il mio interlocutore con il cuore in gola. Probabilmente lui notò più che altro la mia confusione e non la mia paura, perché continuò a spiegare.
-Se qualcuno mai ti toccasse o ti facesse del male, io cosa potrei fare per difenderti?
-Niente.

Mi risposi da sola. Almeno era sincero. Se avesse aggredito un socio sarebbe stato punito, o peggio. Daniel avrebbe sfruttato la situazione per farlo fuori, di certo non avrebbe condannato il mio assalitore. E se Justin fosse morto , io sarei vissuta per sempre in quella gabbia con quelle bestie di soci, che mi avevano fatta soffrire. Ecco perché si era innervosito tanto dopo l'incontro con Hari e aveva colpito il muro. Non poteva sopportare l'idea che mi facessero del male.
-Ma comunque cercherò di fare sempre qualcosa per farti vivere al meglio. Te lo prometto.
Justin mi porse il mignolo e io scossi la testa rifiutando la sua mano.
-No, tu non devi essere il responsabile. Io mi difenderò da sola, so come farlo e adesso ho anche libero accesso alla palestra, metterò su qualche muscolo e tu non dovrai più preoccuparti.
Cercai di essere convincente, e non fu difficile, perché era esattamente quello che pensavo.
-Sai che non sarà possibile, io cercherò sempre e comunque di aiutarti.
Justin alzò le spalle. Era vero, ma gli avrei dimostrato che non avevo bisogno del suo aiuto.
In quel momento la porta della camera di aprì ed entrò un uomo con il camice bianco, mi ricordava qualcuno, ma riuscivo a capire chi. Non appena ci vide si paralizzò e, arrossendo, indietreggiò, dopo un'occhiataccia paralizzante di Justin.
-Torno dopo.
Disse socchiudendo la porta, nell'uscire. Justin si voltò verso di me.
-Ecco, lui sì che mi dà soddisfazione, ha ancora paura di me.
Il tono di Justin era scherzoso, scese dal letto e si ricompose, dopo si voltò verso la porta.
-Almeno è coerente.
Sdrammatizzai. Justin alzò le spalle e a gran voce chiamò l'uomo che era appena uscito. Quando entrò e mi si avvicinò a testa china e lo riconobbi. Era lo stesso medico che mi aveva curata quando Peter mi aveva piantato una pallottola nella spalla.
-Ciao.
Lo salutai, un po' incerta. Ero felice di essere nelle sue mani, lui era uno di quei medici che cercano di aiutarti a costo della propra vita. Si era beccato addirittura un pugno in faccia per difendermi da Justin nel periodo in cui credevo che fossero tutti dei maniaci come il mio aggressore Peter.
-Quinn, tutto bene?
Justin si affiancò a lui, infastidito.
-Sei tu il medico. Non dovresti sapere tu se va tutto bene in lei?
Disse con tono di accusa. Nonostante la paura che l'uomo con il camice bianco provava nei confronti del mio ragazzo, ignorò la domanda. Qualcosa nel suo comportamento mi faceva restare sulle spine, come se volesse parlarmi, ma a causa di Justin non poteva, tanto che sembrava non volerlo guardare negli occhi.
-Allora? Perché si è sentita male?
Lo incalzò Justin. Il medico mi fissò a lungo, dopo rispose.
-Nulla di particolarmente grave, può succedere.
Mi sorrise e alzò le spalle, Justin sembrava contrariato.
-No, non può succedere, ci deve esere qualcosa.
-Non necessariamente.

Disse il medico, era qualcosa di grave? Perché non me lo voleva dire? E perché non di fronte a Justin?
-Sì, certo, perché le persone svengono così, senza un motivo.
Justin stava perdendo la pazienza, non volevo che lo picchiasse di nuovo, non solo perché ero affezionata al medico, anche perché Daniel lo avrebbe saputo sicuramente.
-D'accordo, andiamocene.
Mi misi in piedi e, dopo un momento di incertezza, feci segno a Justin di precedermi.
-Senza neanche una diagnosi?
Chiese lui. Il medico non faceva altro che guardarmi, mi metteva in soggezione e, in più, sembrava preoccupato per me, mi sentivo agitata. Sapevo che qualcosa non andava e l'ultima cosa di cui avevo bisogo era una rissa tra Justin e quell'uomo.
-Sì, ti prego non voglio più restare qui.
Cercai di convincere Justin, che, comunque, dopo qualche secondo mi afferrò per la mano e mi trascinò verso la porta. Mentre mi voltavo dietro inrociai lo sguardo del medico che scuoteva la testa debolmente, con aria rassegnata e mi lanciò un'ultima occhiata colma di tristezza.

**

-E' assurdo che non ci abbiano saputo dire cosa ti è successo.
Justin sbatté la porta della stanza e mi spinse, delicatamente, fino al letto, nonostante io mi sentissi bene. Mi fece sedere sul bordo e si sedette accanto a me, con aria preoccupata.
-Sei sicura di sentirti bene?
Annuii. Dal punto di vista fisico sì, ma continuavo a pensare allo sguardo del medico colmo di pietà nei miei confronti. Era un bene che Justin non riuscisse a leggere le espressioni della gente, perché altrimenti si sarebbe preoccupato il doppio di quanto lo fossi io.
-Sì, davvero. Domani tornerò a lavoro e tutto andrà bene.
Cercai di autoconvincermi, ma in mente mi frullavano tutte le malattie possibili di cui potevo essere affetta.
-Almeno prenditi qualche giorno di riposo.
Suggerì.
-No, sto bene.
In realtà dovevo trovare un modo per distrarmi da quella paura. Mi alzai e mi sedetti alla sedia del tavolo, Justin mi seguì e rimase in silenzio dietro di me.
-Che fai?
Mi chiese dopo un po'.
-Perché sei venuta a sederti qui? Ho fatto qualcosa che non va?
Mi ero mossa solo per non dover stare affianco a Justin e continuare a mentirgli, ma come potevo dirglielo?
-No, non hai fatto nulla.
Lo rassicurai e posai gli occhi sul tavolo, su di esso, sparsi, c'erano centinaia di fogli. Cominciai a leggere e a metterli in disordine, per esaminarli.
-Oh, questo è il mio nuovo lavoro.
Spiegò Justin.
-E' lo stesso di cui ti occupavi tu a New York.
-Sarebbe molto più adatto a me.
Constatai.
-Sì, concordo. E io preferirei il tuo lavoro.
Justin mi mise una mano sulla spalla, aspettando che io capissi fino in fondo cosa voleva dire.
-Daniel l'ha fatto apposta.
Dichiarai, ero carica di rabbia, se lo avessi avuto davanti, l'avrei ucciso.
-Fa fare a me il lavoro che piace a te e a te quello che piace a me. E' così...
Non trovavo un termine adatto per descriverlo. Verme? Serpe?
-...malvagio.
Concluse Justin.
Annuii in silenzio, tanto cosa avremmo potuto fare? Ci odiava, voleva dividerci. Prima avevo creduto che gli interessasse solo la società, ma adesso sembrava quasi che tra Justin e lui ci fosse qualcosa di nascosto sotto.
Il suono del mio cellulare che mi avvertiva dell'arrivo di un messaggio mi fece sussultare.
-Chi è?
Justin si chinò verso di me, mentre prendevo il telefono dalla tasca posteriore dei pantaloni. Non avevo mai ricevuto un messaggio che non fosse di Justin. Neanche qando eravamo a New York. Avevo paura che fosse Hari, o peggio, Daniel, mi sentivo agitata perché stavamo giusto parlando di lui. Ma non poteva saperlo, non era un mago e neanche un veggente. Sbloccai il telefono della società e aprii il messaggio. Quando vidi il nome del mittente mi si liberò il cuore.
-E' Luke.
Spiegai.
-Che vuole?
Il tono di Justin non era calmo, ma non perché non si fidasse di me, sembrava solo che avesse paura che ci fosse scritto qualcosa di brutto. Alzai le spalle e cominciai a leggere.
"Ti devo parlare. Subito." Bloccai il telefono sperando che Justin non lo avesse letto e mi alzai. Forse perché eravamo amici da tanto tempo o per il fatto che non mi aveva mai mandato un messaggio, comunque quel testo sembrava molto importante. Avevo la sensazione che Justin non lo dovesse sapere. Senza mostrarmi agitata o preoccupata mi sporsi verso di lui e gli baciai una guancia, lui si chinò leggermente dalla mia parte.
-Che fai?
Chiese. Pensai alla svelta.
-Luke, si è preoccupato per me, ha saputo cosa è successo. Vado a rassicurarlo. Ci vediamo dopo, va bene?
Justin sembrava sorpreso, non era da me impazzire dalla gioia nel vedere Luke, eppure non chiese nulla. Forse non sapeva del nostro incontro la mattina e credeva che io ancora non l'avessi rivisto dopo la fuga dall'FBI.
-Vuoi che ti accompagni?
-Non ce n'è bisogno, torno subito.

Salutai Justin con il sorriso stampato in faccia e corsi fuori con il cuore in gola, prima che lui avesse il tempo per replicare. Non dovetti neanche correre per più di cinque metri che Luke mi si parò davanti e mi bloccò al muro. Era preoccupato, così come avevo sospettato. Mi guardò per un po', come se mio volesse capire e, in quel momento, non mi interessava se riusciva a percepire tutta la mia ansia, perché desideravo solo che parlasse. Tutta quella fretta era da collegare alla mia malattia di cui nbessuno mi voleva mettere al corrente?
-Ascolta, cerca di sembrare meno spaventata, non sappiamo chi ci osserva.
Sussurrò. Annuii e cercai di rilassare i muscoli.
-Dimmi.
Sorrisi forzatamente.
-Ho parlato con il medico.
Cominciò lui. Non lo avevo visto più preoccupato di allora, neanche quando aveva scoperto cheavevo chiamato l'FBI e lo avevano catturato. Ma perhé era lui preoccupato e non io? Che ero quella malata?
-E allora?
Non riuscivo più a sopportare quella tensione.
-In base ai malesseri di cui hai parlato, lui ha ipotizzato qualcosa.
-Cosa?

Quasi urlai. Luke mi fece segno di fare silenzio e si avvicinò ancora di più a me.
-So che non sono affari miei ma.... da quanto tempo non hai il ciclo?
Io mi aspettavo il nome di una malattia e avevo ricevuo un'altra domanda. Ci misi qualche secondo a metabolizzare. Con il cuore a mille cercai di fare un breve calcolo, ma credevo di sbagliare e dovetti provarci più volte, ma tanto a che serviva contare i giorni? Luke aveva ragione, mi portai una mano alla pancia.
-Sono incinta.
Sussurrai.   





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