29.

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Sopravvivere


Erano trascorse circa due settimane da quella scoperta. Avevo fatto finta di essere malata e non ero andata quasi mai a lavorare, ma ero consapevole che Hari, ormai, avea dei dubbi in proposito. Una semplice febbre mi sarebbe dovuta passare in fretta. Non sapevo in quanti fossero al corrente della notizia, ma l'unico con cui mi fidavo di parlare era Luke. In realtà veniva a trovarmi quando Justin non c'era, cosa che non accadeva quasi mai, ma neanche lui sapeva cosa dire e cosa consigliarmi. Per la prima volta anche Luke non era un passo davanti a me, era senza parole.
All'inizio non avevo davvero realizzato cosa comportasse avere un bambino in quel luogo. Sapevo di non poterne avere, visto che Justin non era più il capo, ma adesso che ero in quella situazione come avrei fatto a uscirne?

Fuggire? Avrebbe comportato troppi rischi, sarei morta sicuramente e lo stesso Justin e Luke, non potevo metterli in rischio.

Mantenere il segreto fino alla fine fingendo una malattia grave? Era quello che stavo facendo, ma in nove mesi sarebbe sicuramente venuta fuori la verità e io mi sarei di nuovo trovata nei guai.

Dirlo a Daniel e affrontare le conseguenze? Sembrava l'unica scelta possibile, ma lui ci avrebbe uccisi sicuramente, anzi, peggio. Avrebbe ucciso me, in modo che Justin potesse incolparsi per tutta la vita, per giunta non poteva neanche conoscere un'altra ragazza con cui stare.

Avevo le mani legate, non potevo fare nulla di nulla, solo aspettare e vedere come si mettevano le cose. Non volevo neanche aprirmi con Justin, perché lui si sarebbe preoccupato ancora di più. Come diceva anche Luke, non avrebbe potuto fare nulla. Era inutile tormentarlo, stava già male per aver perso la società, non servivo io a distruggerlo ancora di più.

Sarebbe dovuta essere una cosa piacevole avere un figlio, eppure in quel momento avrei preferito tutto tranne che essere in quella situazione.
In realtà una soluzione c'era, era chiara e evidente, ma impossibile da raggiungere. Trovare un modo per riprendere la società. Sul codice era scritto che, il capo di una società avrebbe potuto ottenere la società di un altro, uccidendolo. Ma il primo non avrebbe dovuto attaccae per primo, altrimenti la società non sarebbe andata nelle sue mani. Non era possibile, era un controsenso. Sembrava che tutto fosse a mio sfavore.

Era proprio per questa stupida regola del codice che Justin non aveva potuto attaccare Daniel in India e si era dovuto accontentare di quel patto per salvarmi.
Ogni volte che ci pensavo sentivo il desiderio di urlare e rompere tutto. La rabbia mi ribolliva nel sangue. Perché si era dovuto rovinare tutto? Un anno prima avere un figlio sarebbe stato un sogno e adesso era un terribile incubo.

-Ehy, Quinn, come ti senti oggi?
Justin era appena entrato nella stanza e si avvicinava al letto sorridendo. Sapevo che quell'espressione era falsa, stava morendo dentro e mi faceva tenerezza il fatto che mi sottovalutasse. Io riuscivo a capire cosa provava la gente accanto a me. Da stesa mi tirai su, sedendomi sul letto, non volevo sembrare particolarmente malata, altrimenti lo avrei fatto preoccupare ancora di più.
-Meglio, tu?
Non ero mai stata male fisicamente come credeva Justin, eppure ogni volta che varcava la soglia e mi guardava a me sembrava davvero di stare meglio. Non ero più sola, ero in compagnia.
Alzai un braccio verso di lui e Justin piombò sul letto, abbracciandomi.
-Io sto benissimo.
Disse baciandomi il collo. Una risata mi uscì involontariamente. Forse era vero che in quel momento Justin stesse "benissimo" perché era con me.
-Come è andato l'incontro con quell'affarista?
Justin mi ignorò e mi mise una mano sulla schiena, dopo mi sollevò delicatamente dal letto e mi ripose sulle sue gambe.
-Davvero vogliamo parlare di questo?
Sorrise e posò le labbra sulle mie. Mi stringeva forte come se potessi scappare e di tanto in tanto mi mordeva delicatamente le labbra, facendo dimenticare tutte le mie preoccupazioni e paure. Esistevamo solo io e lui.Portai le mia mani alla sua nuca, in modo che non si potesse allontanare neanche volendo. Justin lasciò andare la presa di poco e mi spinse, in modo che io avessi la possibilità di stendermi sul letto. Non ci pensai due volte. Caddi con la schiena sul materasso e intrecciai le mie gambe attorno al suo ventre. Lui si distese sopra di me e continuò a baciarmi. Era in quei momenti che il resto del mondo scompariva e io mi sentivo in paradiso.
Justin iniziò ad accarezzarmi il fianco, per poi spostarsi a toccare la pancia. In quel momento tutto quello che avevo dimenticato, Daniel, il bambino, la possibile punizione, tornarono a tormentarmi. Facendo in modo che quel paradiso perfetto e rigenerante ritornasse l'inferno trementdo e ostile dal quale avevo cercato di fuggire.
Stavo mentendo a Justin, lui davvero credeva che non stessi bene. Misi una mano sul suo petto per allontanarlo, ma lui posizionò la sua mano sulla mia, forse credendo che fosse un gesto d'affetto. Scansai la sua mano e lui capì le mie intensioni,. Così a malincuore si tirò su.
-Perché?
Chiese semplicemente.
-Sono solo stanca.
Alzai le spalle e mi sedetti a gambe incrociate sul letto, di fronte a lui. Justin alzò gli occhi al cielo e lo vidi sbiancare, comunque rimase in silenzio rassegnato.
-Allora, come è andato quell'affare che dovevi portare a termine?
Cercai di farlo distrarre, sapevo a cosa stava pensando, aveva paura che la mia malattia fosse grave, così tanto grave che il medico non aveva voluto dirgli cosa fosse. Quel giorno anche il dottore conosceva questo problema, eppure si era ben visto di raccontarlo a Justin, magari non sapeva se fidarsi di lui o no, del resto mesi prima Justin gli aveva tirato un pugno in faccia.
-Quinn, io... non capisco.
Si alzò dal letto e mi si parò davanti, alzai il volto e lo guardai dal basso. Mi stava per ripetere di nuovo la richiesta che mi faceva da giorni ormai. Abbassai lo sguardo, ero stanca di affrontare quell'argomento.
-Perché non vuoi tornare dal medico?
Il tono di Justin era accusatorio, come sempre.
-Te l'ho già spiegato. E' inutile. Il medico ha detto che non ho niente, quindi è così e basta.
Avrei voluto veramente non avere nulla, eppure non era così. Il medico non mi avrebbe potuto fare stare meglio, questa malattia non era curabile. Se si potesse definire "malattia".
-Se stai male non può essere niente.
Ribadì Justin.
-Non sto male.
Mi serviva solo un modo per farlo azzittire e sapevo già come la conversazione sarebbe finita. Non avremmo raggiunto nessun accordo.
-Stai male se ti senti stanca e non vuoi uscire dalla camera.
Ribadì. Alzai le spalle e rimasi in silenzio, non volevo neanche guardarlo in faccia. Era in quei momeni che facevo fatica a ricordare che lo stavo facendo per lui. Mantevo il segrteto della gravidanza solo per lui. Sapevo che a quel punto della conversazione Justin avrebbe cambiato argomento o comunque sarebbe rimasto in silenzio, perché così era andata diverse volte prima di allora.
Justin invece si inginocchiò davanti a me, che ero ancora seduta sul letto e fui costretta a guardarlo negli occhi.
-Fallo per me.
La voce di Justin era rotta e solo dopo aver pronunciato queste tre parole gli occhi si arrossarono.
-Vai dal medico, non voglio vederti stare male. E se fosse una cosa grave? E se rischiassi la vita? Ogni notte mi sveglio e ti guardo, controllo se respiri perché ho paura di perderti. Non devi farlo per te, ma per me. Aiutami a mettermi il cuore in pace, non voglio provare questa paura costante di perderti. Ti prego.
Justin mi afferrò una mano e se la portò alle labbra, dandogli un leggero bacio.
-Come farò io senza di te se non ti curi?
Justin piangeva, ma silenziosamente. Per un momento mi immedesimai in lui, io come mi sarei sentita se lui fosse stato malato? Forse lo stavo facendo soffrire di più di quanto sarebbe stato se avesse conosciuto la verità. Stavo sbagliando tutto, avrei dovuto dirglielo e cercare rifugio in lui, mentre Justin si sarebbe sentito meglio, perché avrebbe saputo che non ero in pericolo di vita.
Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo.
-Ascolta, devi sapere una cosa.
In quel momento la porta si spalancò e Justin balzò in piedi. All'interno era entrato un ragazzino. Era senza dubbio più piccolo sia di me che di Justin. Rimase un po' a guardarmi, in silenzio, senza né azzardarsi ad entrare, né tornare suoi sui passi. L'unica cosa a cui riuscivo a pensare era che lui mi aveva interrotta e io non sapevo se avrei mai ritrovato il coraggio per parlare con Justin.
-Che vuoi?
Chiese Justin, forse un po' troppo bruscamente,perché il ragazzo sussultò e distolse subito lo sguardo da me.
-Sono venuto qui per una comunicazione importante.
Dichiarò il ragazzo alzando il mento, come se volesse sembrare più importante di quanto fosse.
-E dilla.
Come sempre il tatto di Justin era minimo in ogni occasione. Il ragazzo indietreggiò un po' spaventato. Sapevo cosa frullava nella testa di Justin, era felice perché finalmente qualcuno aveva di nuovo rispetto per lui.
-Io...
-Tu?

Cercai di incitarlo, lui scosse la testa e fece un respiro profondo.
-Riguarda lei.
Mi indicò con tono d'accusa.
-Il capo sa che non va al lavoro da un po'. Se non torna domani lui verrà qui.
Vidi Justin in pochi secondi diventare rosso. Con due lunghi passi raggiunse il ragazzo e per poco non fece cadere una sedia.
-Non vedi che sta male? Non può tornare in quel posto.
Afferrò il ragazzo dalla spalla e lo spinse contro il muro. Sapevo che non avrebbe fatto male più di tanto al ragazzo, ma non volevo che si mettesse in pericolo ugualmente, così corsi verso di loro per per dividerli.
-Non è colpa mia, l'ha detto lui.
Il ragazzo stava con gli occhi chiusi come se credesse che un pugno gli sarebbe potuto arrivare da un momento all'altro.
-Smettetela.
Tirai Justin lontano dal ragazzino che cominciò a pregarlo di non fargli del male. Guardai Justin, era infuriato. Ma non con quello sconosciuto, con Daniel. E avrebbe potuto sfogare la sua rabbia contro chiunque. Iniziai a temere seriamente per il ragazzino.
-Va via.
Lo incitai, lui senza pensarci due volte corse nel corridoio, quasi inciampando nei suoi stessi piedi. Chiusi la porta delicatamente e mi voltai verso Justin, probabilmente stava ancora metabolizzando la rabbia perché teneva i pugni chiusi ed era in silenzio accanto al tavolo.
-Sei arrabbiato?
Gli chiesi con calma, Justin per tutta risposta scaraventò a terra la sedia che prima aveva solo urtato per raggiungere il ragazzo. Io sussultai, ma cercai di non mostrarmi spaventata.
-Lo prenderò come un sì.
Mi pulii la maglietta passandoci sopra le mani e feci un respiro profondo. Non mi piaceva affatto quello che stavo per fare, ma era necessario.
-Va bene, ci vediamo dopo.
Salutai Justin con la mano, tenendomi bene a distanza e mi voltai verso la porta. Volevo stare lontana da lui non perché avessi paura, sapevo che non mi avrebbe fatto nulla, più che altro perché se avesse conosciuto le mie intenzioni mi avrebbe fermata sicuramente.
-Dove vai, Quinn?
Si sporse per afferrarmi da un polso e costringermi a girarmi verso di lui.
-A lavoro.
Lo dissi come se fosse la cosa più normale, ma una volta lì come avrei fatto a combattere con quei ragazzi?
-No, non devi farlo solo perché te lo ha imposto Daniel, stai male.
Invece dovevo e lo sapeva anche lui. Non potevo rischiare di vedere Daniel venire dall'India per punirmi. E non c'entravo solo io. Lui avrebbe dato sicuramente la colpa anche a Justin.
-Con tutto il rispetto, ma non puoi fermarmi.
Strattonai il braccio dalla presa di Justin, lui non era più il capo, cosa poteva fare per trattenermi lì?
-Quinn, ascolta, se non ti senti bene parlerò io con Daniel, non ti devi preoccupare, ti porterò da un medico e potremmo riprendere la nostra vita quotidiana.
Justin era chinato su di me e parlava quasi sussurrando.
-La nostra vita non sarà mai come prima, perché ti illudi?
Solo dopo averlo detto mi resi conto dell'effetto che quelle parole potevano avere su Justin. In realtà non alludevo a Daniel o Hari, ma parlavo del bambino, lui ci avrebbe completamente sconvolto la vita.
-Forse hai ragione.
Justin si incupì e rialzò con estrema calma la sedia che aveva lasciato cadere. Dopo ci si sedette sopra, con aria rassegnata.
Guardai in direzione del corridoio e poi mi voltai verso di lui. L'ultima volta che lo avevo lasciato in quelle condizioi aveva preso a pugni un muro. Decisi che non sarebbe stato saggio farlo una seconda volta, del resto dagli errori si impara.
Lo raggiunsi e mi sedetti sulle sue gambe.
-Non volevo dirlo ad alta voce.
Appoggiai la mia testa sulla sua.
-Anche se non l'avessi detto, l'avresti continuato a pensare.
Rispose.
-Quando dico che la nostra vita tornerà come prima lo penso davvero. L'unica cosa che voglio è stare con te ed è quello che ho. Non potrei chiedere di meglio. Non mi interessa della società.
Gli occhi di Justin si riflettevano nei miei.
-Anche se non lo dici ad alta voce è esattamente ciò che stai pensando: ti interessa della società.
Cercai di richiamare le sue parole. Lui rimase colpito.
-Per adesso pensiamo solo a sopravvivere, poi si vedrà.
Abbozzò un sorriso, lui davvero sperava che sarebbe riuscito a strappare la società dalle mani di Daniel, non volevo buttarlo giù con il mio pessimiso, così mi limtai ad alzarmi dalle sue gambe e a scompigliargli i capelli con una mano.
-Ci vediamo dopo.
Lui sembrò infastidito per il gesto e cercò di aggiustarsi i capelli alla meno peggio.
-Ho un altro incontro importante adesso. Non voglio sembrare un poveraccio. Non toccarmi i capelli.
Rideva, gli toccai i capelli di nuovo e lui mi guardò male.
-Smettila.
Si mise le mani in testa, come da scudo.
-Altrimenti che mi fai?
Lui si alzò e io corsi fuori dalla porta, ridendo, amavo vederlo infastidito con me, era divertente e sapevo che non mi avrebbe comunque mai torto un capello.
-Ciao.
Lo salutai da lontano e corsi via, mentre lui mi sorrideva da lontano e felice. Sperava che mi sentissi meglio sicuramente ed era esattamente ciò che volevo fargli credere, anche se ero distrutta. Perlomeno lui non si sarebbe più preoccupato e il problema "felicità di Justin" era andato. Mancava solo il problema "bambino".
Non appena svoltai l'angolo cominciai a camminare sempre più lentamente. Non avevo alcuna voglia di tornare al lavoro.
Mi mossi così tanto con calma che ci misi quasi mezz'ora a raggiungere la palestra.
Davanti alla porta feci un respiro profondo e allungai la mano verso la maniglia. Sobbalzai quando qualcuno aprì la porta dall'interno, più velocemente di me.
-Quinn.
Mi salutò Hari.
-Che piacere rivederti.
Annuii e, mentre lui usciva, io entrai dalla porta. Me ne stavo per andare quando mi sorse un dubbio.
-Questo è orario di lavoro. Dove vai?
Hari ignorò la domanda e cercò di cambiare discorso.
-Come ti senti? Ho saputo che sei stata male.
Mi guardò da testa a piedi, soffermandosi forse un po' troppo sulla pancia. Poteva anche darsi che fosse solo una la immaginazione, dovuta al fatto che sospettavo che ogni persona mi passasse accanto sapesse del bambino. Era colpa della paura, credevo che ognuno di loro potesse puntarmi un dito contro e rivelare ad alta voce quel sgreto che mi stava divorando.
-Sto meglio.
Il mio tono era palesemente diffidente. Troppo, così i suoi sospetti, se ne aveva, sarebbero aumentati.
-Allora dove vai?
Mi affrettai a cambiare argomento.
-Ho una faccenda da sbrigare, mi hanno appena chiamato. Ma non ti preoccupare, i ragazzi stanno facendo degli esercizi, seguili tu per un po'.
Mi sfiorò il braccio e quel tocco mi fece rabbrividire.
-Magari fanne qualcuno anche tu, mi sembri meno in forze del solito.
Hari mi salutò e corse via. Letteralmente. Come se avesse piazzato una bomba e dovesse sbrigarsi prima che qualcuno potesse capire che era stato lui.
Quello scambio di battute era stato così sconvolgente che esitai a entrare nella palestra.
Una voltra dentro mi chiusi la porta alle spalle e camminai verso i ragazzi che stavano alzando dei pesi.
-Ciao.
Salutai e loro fecero lo stesso. Eppure nonostante i muscoli non sembravano dei cattivi ragazzi, neanche Martin, forse lui era da considerare solo un po' stupido, ma non una vera minaccia.
-Oggi combattiamo?
Chiese uno dei ragazzi più piccoli, gli sorrisi e scossi la testa.
-Ho appena incontrato Hari, ha detto che vi ha assegnato degli esercizi, lavoreremo su quelli.
Delle lamentele si innalzarono da parte di tutti. Io cercai di calmarli e li spinsi a tornare al proprio lavoro. Eppure, nonostante fossi svenuta l'ultima volta, loro provavano un certo rispetto per me, ero riuscita a convincerli. Mi sentii fiera di me.
Fortunatamente il problema "lavoro" in quella giornata ero riuscita a scamparlo. Non sapevo come avrei fatto per i restanti giorni, ma come mi aveva detto Justin, meglio pensare a sopravvivere al resto avremmo pensato più tardi. Avrei vissuto alla giornata.
Per circa un quarto d'ora continuai a pensare allo strano incontro con hari. Sembrava felice per quel lavoretto, eppure non mi sembrava uno che potesse abbandonare il lavoro in quel modo, solo per sbrigare un lavoretto. Alla fine decisi di chiedere ai ragazzi.
-Sapete dove stava andando Hari?
Tutti scossero la testa.
-Ha detto solo che aveva un incarico da Daniel molto divertente.
Mi voltai verso un ragazzo che aveva appena parlato.
-Sì, credo che dovesse punire qualcuno che ha infranto il codice.
Disse qualcun altro. Annuii e rimasi in silenzio. Amava picchiare la gente se era davvero così felice per raggiungere il suo obiettivo tanto da mettersi a correre nel corridoio. A meno che non dovesse prendersela con qualcuno con cui aveva già dei precedenti, o qualcuno che non sopportava affatto.

-No.

Urlai così tanto forte da far spaventare un ragazzo che era seduto accanto a me. Corsi verso la porta lasciando i miei allievi soli e allibiti.

Justin era in pericolo.


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