11.

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Tradimento


-Paul.
Sussurrai cercando di credere a ciò che stavo vedendo.
-Quinn.
Rispose lui sorridendo. Il suo era uno di quei sorrisi perfetti, che non si dimenticavano facilmente, che riuscivano a rendere gli altri felici, ma non in quel caso.
-Cosa...?
-Cosa ci faccio qui? –Mi interruppe e il suo sorriso si tramutò in un ghigno di divertimento. – Io lavoro per questa società.
-Io credevo... tu vivevi negli Stati Uniti, nella società americana, tu...
Mi sentivo confusa. Justin aveva sempre detto di essersi fidato di Paul, c'era proprio lui all'asta quando mi aveva venduta, non apparteneva alla società indiana, aveva anche il marchio di quella di Justin.
-Tu non hai capito nulla cara mia.
Alzò un sopracciglio.
-Allora spiegamelo... magari allontanando questa cosa dalla mia faccia.
Indicai la lama che aveva in mano. Lui era pur sempre Paul, mi aveva rispettato fin da quando ci eravamo conosciuti. Nonostante per un periodo Justin avesse avuto paura che per vendetta mi avrebbe potuto fare del male, non lo aveva mai fatto. Io avevo ucciso Peter, il suo ragazzo, e lui non aveva mai mosso un dito contro di me. Potevo permettermi di parlargli come una persona al mio pari.
-Si certo, come no. E' già tanto che non ti porto dal capo.
Mi afferrò per un braccio e mi fece alzare in piedi. Afferrai la sua mano con la mia per liberarmi, ma lui fu più veloce e mi ammanettò in un batter d'occhio.
-Andiamocene.
Mi strattonò per la spalla e uscimmo da quella stanza buia.
-Io non vengo da nessuna parte se prima non mi spieghi quello che sta succedendo.
Mi blocai e cercai di fare forza per rimanere dove ero, anche se lui continuava a tirarmi, ignorando le mie richieste. Alla fine i piedi che strisciavano sul pavimento e il braccio che era ancora stretto nella morsa di Paul inziarono a dolermi, smisi di opporre resistenza e fui costretta a camminare al suo passo. Il viso di Paul di rilassò e sembrò soddisfatto.
-Devi capire che qui io sono il socio e tu sei la schiava, sei considerata da tutti come un oggetto e fai quello che dico io. Chiaro?
Sentii la rabbia pulsare nelle mie vene.
-Una volta non era così. Tu sei sempre stato il socio, ma ero io il tuo capo.
Era vero, Justin aveva sempre sostenuto che non era l'unico capo della società, ma che lo ero anche io.
-Non siamo più a quei tempi. La società così come la conoscevi tu non esiste più, LUI è debole.
Sembrava innervosito dal modo in cui mi ero rivolta a lui. Riuscivo a capirlo dal fatto che la sua presa attorno al mio braccio era molto più forte e il suo passo più veloce.
-E' per questo che li hai abbandonati? Perché la soceietà sta fallendo?
-No, non è per questo. Possibile che non capiscì?
Ringhiò. Si posizionò di fronte a me e smise di camminare. I suoi occhi verdi sicuri e penetranti mi mettevano in soggezione, ma nonostante ciò cercavo di non daro a vedere, mostrandomi con la testa alta espalle larghe.
-Non sono mai stato fedele a Justin. Mai.
-Aspetta... tu conosci il suo nome?

Per un momento parve perdere la sua spavalderia, essendo preso alla sprovvista. Si ricompose, però, un attimo dopo. Nessuno avrebbe notato quell'insicurezza, se non un occhio allenato come il mio.
-Io tenevo alla società, ma non piaceva il modo in cui era organizzata.
In quel momento capii.
-Per questo hai inviato quel ragazzo che assomigliava tanto a Justin nella società, sapevi che l'avrei trovato e che l'avrei liberato.
Ora tutto tornava. Mi ero chiesta se il fatto che Paul avesse mandato quel sosia fosse rilevante o no e a quanto pare lo era.
-Già, convincerti a trovarlo non è stato difficile, in realtà non ho neanche dovuto farlo, per il semplice motivo che ti ci sei diretta tu da lui senza darmi problemi.
-Volevi che distruggessi la società.
-No, non ho detto questo.
-Allora perché lo hai fatto?

Paul mi ignorò e riprese a camminare con passo svelto.
-Andiamocene prima che ti vedano.
Dichiarò.
-Se volevi distruggerci perché non mi porti dal capo e basta? Lui mi ucciderebbe, vero?
Paul fece finta di non sentirmi.
-Dico bene?
Insistetti. Volevo delle risposte e sapevo che avevamo quasi raggiunto la mia camera perché in lontananza riconoscevo l'unica porta bianca, tra tutte le altre grigie, che diventava sempre più grande man mano che ci avvicinavamo. Se mi odiava davvero perché non mi portava al capo? Significava solo una cosa, lui aveva bisogno di me sana e salva.
-Perché non vuoi che riceva la giusta punizione? Tu ci odi.
-Vuoi stare zitta?
Paul innervosito mi sbatté contro il muro alla sua sinistra.
-Non sono affari tuoi.
-Riguarda me, certo che lo sono.
Paul iniziò a battere ritmicaemente un piede per terra, forse era un modo per scaricare la rabbia e la tensione.
-Lo scoprirai, ma non adesso. Ora vattene e non procurarti più problemi di quanti tu già non ne abbia. Questa società non perdona.
Mi puntò di nuovo il coltello alla gola e fu in quel momento che sentii cadermi il mondo addosso, mi sentii male quasi quanto in tribunale avevano condannato Justin. "Non procurarti più problemi di quanti tu già non ne abbia." Quelle parole mi rimbombarono in testa per paecchio tempo, anche dopo che Paul aveva aperto la porta della nostra camera e mi aveva, letteralmente, scaraventato dentro. Era la stessa frase che era scritta sul bigliettino, Mi venne il terribile dubbio che non era stato Justin a mandarlo, ma Paul. Lui mi voleva viva per qualche motivo in particolare.
La cosa peggiore era che adesso avevo la conferma che davvero Justin non mi amava più. Si era dimenticato di me, non aveva veramente trovato un modo per comunicare con me. Probabilmente si era trovato un'altra ragazza con cui passare a vita e aveva già avuto dei figli con lei. Tutte le mie speranze erano andate in fumo. Probabilmente non aveva neanche visto il video nel quale mi avevano torturata o, se l'aveva fatto, non gli era interessato più di tanto. In fondo mi aveva venduta ed era scappato mentre Daniel mi prendeva con sé. Come potevo aver pensato ed essermi autoconvinta che lui mi amasse ancora?

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