Capitolo 31 Sto venendo a casa amore mio

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Narra Jessica

Da almeno un quarto d'ora, ero davanti a quella porta, incapace di allungare il braccio per bussare. I miei vestiti erano fradici, impregnati di pioggia acida, e i piedi mi sguazzavano nell'acqua, entrata abbondantemente nelle scarpe. Ero infreddolita, ghiacciata, e dei brividi continui mi percorrevano la schiena. Battevo i denti, e abbracciata su me stessa, cercavo invano di riscaldarmi sfregando le mani su gli avambracci. Dai miei vestiti e dai capelli, gocciolavano piccole sfere d'acqua che atterravano sulle mattonelle del pavimento bianco con un sonoro plof. L'aria fredda e umida mi pungeva le guance, ormai completamente arrossate e insensibili. Anche il mio naso era diventato rosso carminio per il freddo, e quasi non lo sentivo più, mentre le dita delle mani, intorpidite, si muovevano con estrema difficoltà. Volevo bussare, volevo fargli sapere che, nonostante il diluvio universale, nonostante le sue urla di poche ore prima, e nonostante le mie paure cieche, io ora ero venuta da lui, l'avevo raggiunto. Ero rimasta per un tempo indefinito lì, allo skate park, terrorizzata. Ricordo che, dopo avermi lasciata sola, mi ero sdraiata sull'erba umida e avevo rivolto lo sguardo verso il cielo terso, chiedendogli le risposte a tutte le domande che mi serpeggiavano nella testa. Mi sentivo svuotata, e non era per niente una bella sensazione. Le lacrime, poco a poco, erano terminate, e i miei occhi si erano trasformati in due laghi prosciugati. Imperterrita continuai a lungo a domandare al cielo il perché, il perché del mio comportamento, del suo, e delle mie paure. Il cielo non mi rispondeva, così allungai le braccia lungo il corpo e iniziai ad accarezzare l'erba fresca. Era impressionante come fosse morbida e folta. Sorrisi tra me e me, e rivolsi gli occhi ancora una volta al cielo. Ero sola. E non era un male. Dentro di me sapevo che dovevo rialzarmi da sola, perché non sarebbe venuto nessuno a salvarmi. Nessuno sapeva dove mi trovavo. Avrei potuto chiamare Arianna, o la nonna, ma sarebbe stato inutile, sarebbe stato da vigliacca. Dovevo farcela da sola questa volta, non dovevo sempre aspettarmi che gli altri mi salvassero. Mi tirai su a sedere, e mentalmente ringraziai il cielo. Una brezza leggera iniziò a soffiare, e i capelli, mossi dal vento, mi iniziarono a solleticare il viso. Risi silenziosamente e mi sollevai in piedi. Sapevo perfettamente cosa dovevo fare: andare da lui. Iniziai a scendere dall'altopiano a piccoli passi, percorrendo a ritroso la strada che ci aveva condotti qui poche ore prima. Senza la minima fatica, ricordai dove si trovavano il quartiere e la casa di Mirko. Saranno state più o meno le quattro, quando mi misi in cammino, ed ero ancora a stomaco vuoto. Ormai la mia pancia brontolava e si lamentava, implorandomi di cambiare direzione e dirigermi verso un ristorante o qualsiasi altro posto dove si potesse mettere qualcosa di commestibile sotto i denti.

« Hei, ti prometto che prima di stanotte ti riempirò, ma adesso ho una cosa davvero importante da portare a termine »

Sussurrai alla mia pancia, con una mano sullo stomaco. Qualcuno per la strada mi guardò di sottecchi, qualcun altro mi lanciò delle occhiatacce, altri mi guardarono con compassione. Probabilmente credevano che fossi in dolce attesa. Risi a crepapelle a quel pensiero. Non mi interessava ciò che pensava la gente, a me importava solo di raggiungerlo in quel momento, di baciarlo e di fargli sapere quanto avessi bisogno che lui fosse nel mio futuro. Ero pronta a mettere da parte ogni genere di timore per lui, avrei superato qualsiasi paura se lui mi avesse tenuto la mano e fosse stato al mio fianco, e lo doveva assolutamente sapere. Rischiare di perderlo una volta e per sempre mi aveva fatto capire quanto disperatamente non volessi che accadesse. Lo amavo. Dio, se lo amavo. E ora stavo correndo da lui per dirglielo guardandolo negli occhi. Avevo la sensazione che sarebbe andato tutto bene, che tutte le paure fossero svanite, che si fossero dissolte e che il vento le avesse portate via con sé, lontano da me. Ero pronta per lui, per noi. Non avrei aspettato un secondo di più, ma cosa avrei fatto se lui non avesse più voluto saperne di me? Non mi importava, volevo solo dirgli che lo amavo. Mi sarebbe bastato. Mentre lo raggiungevo di corsa, iniziò a piovere a diritto. In quei giorni diluviava di continuo, ma la pioggia torrenziale non poteva arrestarmi. Sentivo dentro di me un irrefrenabile desiderio di guardarlo negli occhi, di abbracciarlo, baciarlo e unirmi a lui. Non mi importava più della distanza, non mi importava più di soffrire, di farmi distruggere il cuore e l'autostima, il futuro e le speranze. In quell'istante mi importava solo di lui, e se averlo significava andare incontro a tutti questi rischi, io li avrei accettato a braccia aperte. Ora avevo detto basta, basta a tutte le mie stronzate da bambina, a tutte le mie scuse, a tutti i miei tira e molla. Ora avevo promesso a me stessa e al cielo che ci avrei provato, avrei rischiato con tutta me stessa, perché solamente così mi sarei sentita libera e viva. Dovevo farlo per me stessa. La pioggia diventava sempre più violenta, ma io non mi fermavo. Il cuore mi martellava nel petto ad un ritmo insostenibile, e temevo che i piedi avrebbero ceduto da un momento all'altro. Mi dolevano le gambe, e ormai non avevo più fiato nei polmoni, ma ero prossima alla mia meta. Mi fermai ad ammirare da lontano quel palazzo, la casa dove abitava il mio cuore. Un sorriso dolce e malinconico mi increspò le labbra senza preavviso e, mentre la pioggia mi scivolava lentamente addosso, lasciai che quella stessa pioggia lavasse tutto il dolore, tutte le mie paure e le facesse scivolare fino a terra, giù, sotto le suole delle mie scarpe. Ero completamente bagnata dalla stessa ai piedi, eppure ero felice, sentivo la felicità che mi gonfiava il cuore.

Oltre la distanza-Cameron Dallas #Wattys2018Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora