Capitolo 34 Senza te

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Narra Mirko

Erano trascorsi due interminabili giorni, da quando Jessica era uscita dal mio appartamento, sbattendo impetuosamente la porta principale. Due giorni in cui non avevo fatto altro che chiamarla insistentemente, riuscendo solo ad ottenere un ammonimento da parte di Arianna, la quale mi minacciò senza mezzi termini che mi avrebbe fatto molto male nel caso in cui non avessi lasciato in pace sua cugina, e che non si sarebbe preoccupata se, picchiandomi, avesse scatenato l'ira dei miei fan. Non ero riuscito più a parlare con Jessica da quel giorno, perché continuava incessantemente a deviare alla segreteria ogni mia telefonata e, come ho già detto, Arianna non voleva collaborare. Le avevo inviato milioni di messaggi, nei quali le chiedevo di vederci per chiarire ogni dubbio, sebbene non fossi ancora effettivamente pronto a rivelarle il mio inconfessabile segreto e, inoltre, mi ero persino presentato innumerevoli volte sotto casa di sua nonna, dove Jessica stava passando le vacanze. Avevo cercato di contattare Arianna un'altra volta, sperando di poter chiarire almeno a lei cosa fosse successo e ignorando le sue minacce, ma ugualmente non ottenni esiti positivi.
La notte non riuscivo a dormire, talvolta chiudevo gli occhi per la stanchezza, ma senza mai prendere sonno. Forse dormii solo un paio d'ore, ma furono le ore di sonno peggiori di tutta la mia vita. Era bastata una sola notte trascorsa a dormire con lei al mio fianco, per non permettermi più di riuscire a dormire da solo.
Sognai di ritrovarmi nella sala da ballo di uno sfarzoso castello. Le pareti e il soffitto erano interamente affrescate con dipinti di giardini incantati e tempestati di fiori rari. Di qua, e di là, si potevano anche notare dei curiosi e variopinti usignoli affrescati, che si libravano nel cielo sereno, mentre sotto di loro scorreva un ruscello limpido, e dipinto in maniera così realistica, che se lo avessi toccato, avrei potuto giurare di bagnarmi. Quella sala era decisamente molto pittoresca, ci si poteva perdere la condizione del tempo, osservando ed entrando in quegli affreschi indescrivibili. Sulle pareti laterali, erano stati fissati due giganteschi e cristallini specchi con le cornici di puro oro, modellato a forma di ricci e volute, invece, sulla parete dietro di me, si apriva una grande e luminosa finestra, inquadrata da una tenda bordeaux drappeggiante con le cuciture d'oro.
Infine, in fondo alla sala, sulla parete che mi stava di fronte, torreggiava un antico e ben tenuto orologio a pendolo di legno di noce, nel quale erano intarsiate figure di angeli e grappoli d'uva.
Posso stimare che in tutta la sua magnificenza fosse alto almeno due metri e cinquanta, ma, sebbene fosse splendido, su di esso incombevano le tenebre e l'orrore. Attorno gli aleggiava un'aria spaventosamente sinistra. Con il suo pendolo d'oro, in cui ci si poteva addirittura specchiare, e che oscillava incessantemente chissà da quanti anni or sono, scandiva ogni secondo con un suono tombale e raccapricciante. Al centro dell'enorme e ricco ambiente, sorgeva un modesto tavolino, anch'esso di legno di noce, i cui piedi, uniti al centro, si ripiegavano a ricciolo sul pavimento e sotto il marmo candido, sorretto anche da quattro angeli simili a quelli dell'orologio.
Sul tavolo vi era appoggiato un vaso di vetro, contenente un florido mazzo di rose profumate di color albicocca pallido.
Iniziai a inoltrarmi in quella meravigliosa sala, rimirando i dipinti ed evitando di posare lo sguardo sul grande e tenebroso orologio. Quando fui abbastanza vicino al vaso, vidi una rosa bellissima, rossa come le labbra di Jessica e soffice al tatto come i suoi capelli. Giaceva al centro del mazzo, nascosta dalle altre. Fu in quel frangente che pensai dentro di me di non aver mai visto in vita mia un fiore più bello e profumato di quello, e sentii nel mio cuore nascere un incontrollabile desiderio di raccoglierlo, per renderlo solo mio. Mi chinai per strappare la rosa dal mazzo, tuttavia, appena avvicinai la mano e sfiorai i suoi pregiati petali rossi, l'enorme ed inquietante orologio a pendolo risuonò il rintocco della mezzanotte, e un lampo improvviso illuminò sinistramente la sala avvolta dall'oscurità. Sussultai e mi si mozzò il respiro, quando la rosa, al mio leggero tocco, appassì improvvisamente davanti ai miei stessi occhi increduli, e quelle attorno presero fuoco, ardendo famelicamente. Il rintocco della mezzanotte riecheggiava minacciosamente nell'ambiente avvolto dall'oscurità, rendendolo terrificante e macabro. D'improvviso tutta la vegetazione dell'affresco si animò, mentre un altro lampo, seguito da un assordante tuono, mi abbagliò, facendomi precipitare nel buio più totale.
Dopo quell'incubo, mi svegliai di soprassalto, mentre mi dimenavo nel letto come un pazzo. Tremavo ed ero sudato, spaventato. Respiravo convulsamente, mentre il mio cuore accelerava i battiti insistentemente, senza che compiessi nessun tipo di sforzo fisico. Sembrava tutto così dannatamente reale. Cercai di calmarmi e di respirare a ritmo regolare, inspirando ed espirando a occhi spalancati, concentrandomi solo sulla mia attività respiratoria. Temevo che se avessi chiuso gli occhi, nuovamente mi sarebbero serpeggiate nella mente le immagini di quell'inquietante sala da ballo e delle rose ardenti. Immagini che non sarei riuscito a reggere ancora una volta.
Pensai che, forse, quel terribile incubo fosse una predizione del futuro, una terrificante predizione che si sarebbe avverata se mi fossi avvicinato troppo al fiore, a lei. Oh, al diavolo, si trattava solo di una stupidissima visione. Io la amavo, perciò con me non sarebbe potuta appassire. Non sarebbe potuta sfiorire come quella rosa, perché io mi sarei preso cura di lei e le avrei offerto ogni attenzione possibile. L'avrei resa la mia regina, il fiore più desiderato e invidiato del giardino. Ciononostante, un'infinitesimale parte del mio cuore temeva, almeno quanto il passato, che quel terrificante sogno si potesse avverare.
Quando in quei giorni mia madre mi rivolgeva la parola, le rispondevo sempre male ed ero talmente combattuto con me stesso, che respingevo chiunque tentasse di avvicinarsi a me e al mio dolore, compreso Davide. Quella sofferenza era mia, mia e soltanto mia, non volevo condividerla con nessuno, anche perché nessuno avrebbe capito. Agli occhi ingenui di chiunque, ciò che stavo passando poteva sembrare solo un periodo di schifo totale e, in fondo, era anche colpa mia se nessuno poteva aiutarmi, perché io stesso non sapevo come spiegare tutto quello che mi passava per la mente, tutto quello che stavo patendo e tutto ciò che avrei voluto fare. Come potevo spiegare a qualcuno, con le effimere parole e ad alta voce, quanto cazzo mi mancava sentirla vicina e con me? Era successo tutto troppo in fretta tra noi, e se nemmeno io ero in grado di mettere insieme i pezzi del puzzle per capirci qualcosa, perché mai qualcun altro avrebbe potuto?
Volevo stare solo con i continui attacchi di rabbia che si impossessavano di me, quindi, non mi sorpresi quando persino Angela venne nella mia camera, cercando di addentrarsi nella mia vita con estrema cautela e con domande generiche a proposito del mio strano comportamento. Riuscii a gestire solo in questo caso un discorso coerente e quasi normale con qualcuno, cosicché mia madre mi lasciò in pace ben presto, sebbene non avesse ricevuto una vera e propria spiegazione della mia irascibilità, ma solo qualche chiarimento vago e approssimativo. Fu un vero e proprio colpo di fortuna che, dopo qualche minuto che Jessica se n'era andata, Guglielmo mi avesse telefonato, riferendomi che io avrei fatto parte del cast del suo prossimo film, perché mia madre non si preoccupò troppo né di trattarmi come uno zero, né di tartassarmi con domande sul perché non mi fossi presumibilmente impegnato per il provino. Era contenta, e fu stato facile allontanarla da me e dalla mia rabbia cieca. Non ero triste, non ero disperato, non mi si era spezzato in due il cuore, ero solo sfiancato e irascibile, ma soprattutto ferito. Sapevo che prima o poi Jessica avrebbe ceduto ai miei costanti tentavi di chiarirci, perché dentro di me una flebile vocina mi sussurrava che tutto sarebbe andato bene alla fine. Dovevo solo aspettare in un angolino buio, rannicchiato su me stesso, sperando che lei tornasse il prima possibile da me. Avevo fiducia, e nel caso ci avesse messo troppo tempo a tornare, sarei andato io a prenderla personalmente. La amavo troppo, perché lei rendeva il mondo un posto migliore, soltanto sorridendo, e proprio sorridendo rendeva me una persona migliore. Solo questo contava.
Erano trascorsi solamente due giorni senza di lei, tuttavia mi sembravano essere durati una vita intera. Mi mancava. Mi mancava la sua risata contagiosa, mi mancavano i suoi occhi verdi come gli smeraldi e profondi come gli oceani. Mi mancava il modo in cui ci toccavamo, mi mancavano le sue labbra pretenziose sulle mie, mi mancava la sua piccola mano nella mia, mi mancava il suo respiro caldo sulla pelle e la sua presenza rassicurante vicino a me, attorno a me. Mi mancava persino vederla girare per casa. Tuttavia, più di ogni altra cosa, mi mancava la sua luce che illuminava le mie tenebre.
Non riuscivo a far altro se non pensare a lei. Cosa stava facendo in quel momento, senza di me? Con chi era? Anche lei pensava a me? Quelle domande mi tormentavano, la rabbia non mi dava tregua, e l'unica cosa che avrei voluto fare, dopo baciare Jessica fino a farci male, era spaccare tutto quello che mi circondava. Se chiudevo gli occhi la sua immagine mi compariva inesorabilmente nella mente, e il mio cuore non eseguiva capriole o salti mortali, come quando la guardavo in carne e ossa davanti a me. No. Il mio cuore si spezzava un pochino, e poi sempre un pochino in più, finché la crepa che lo stava dividendo in due metà separate si fece profonda e insopportabile. Ogni ora, di ogni minuto, di ogni fottuto secondo senza di lei, aveva degli effetti catastrofici su di me e sul mio cuore.
E pensare che prima di incontrarla, non ero nemmeno sicuro di averlo un cuore.
Volevo uscire di casa e urlare al mondo intero che la amavo. Volevo che tornasse da me, diamine, ma io non potevo rivelarle il mio segreto, nemmeno sotto tortura. Eppure, proprio cercando di nasconderglielo, l'avevo persa, e speravo che non fosse per sempre. Dio, se non l'avessi mai più rivista, abbracciata, baciata, non so cosa sarei stato capace di fare.
Sì, forse mi aveva esattamente spezzato il cuore in due. Senza forse.
Mi chiedevo come diavolo fosse possibile che una persona qualsiasi, entrata in un momento qualunque della mia vita, potesse diventare qualcosa di così significativo e fondamentale per me. Credevo che fosse una cosa magnifica quella che mi era successa, incontrare Jessica, ma solo finché tra noi era stato tutto rose e fiori, perché, adesso che anche le spine delle rose mi avevano punto dolorosamente, compresi quanto potesse essere bello e lancinante allo stesso tempo l'amore. Se mi avessero detto, anche solo il giorno prima di incontrare Jessica, che prima o poi avrei sofferto amaramente per amore, giuro che non ci avrei mai creduto. Sarei molto probabilmente, anzi, sicuramente, scoppiato a ridere senza ritegno. L'amore? Cos'era l'amore per me? Niente, non era niente perché l'amore era una fottutissima bugia. Era.
Una volta conoscevo l'amore incondizionato di una madre, di un padre, ma quell'amore si era trasformato in qualcosa di orribile. In un incubo. Perché mai avrei dovuto credere nell'amore tra due persone, per di più se non erano legate da nessun tipo di legame di sangue o altro? Ecco, non ci avrei mai potuto credere. Era inevitabile. Credevo solo nell'amicizia, sebbene Davide mi avesse voltato le spalle e tutti i miei altri "amici" non fossero altro che conoscenti tirapiedi e opportunisti. Volevo credere che esistesse là fuori qualcuno che mi potesse amare, ma non ci riuscivo. Non potevo riuscirci.
Rituffandomi nel mare tempestoso del mio passato, mi sentii inerme, indifeso, vulnerabile, e sapevo che era sbagliato sentirsi così, tuttavia non riuscivo a reagire in maniera diversa. Odiavo crogiolarmi nei pensieri, nei dolori passati e presenti, nell'immaginazioni di un futuro roseo, eppure stava succedendo ciò che odiavo con tutto me stesso. Lei mi stava respingendo con tutte le sue forze, ed io non ne avevo abbastanza per espugnare le mure che aveva innalzato attorno a sé e al suo cuore per evitare che io mi avvicinassi a lei, per evitare di soffrire ancora. Ero conscio di averle fatto male, di averla ferita davvero tanto quel giorno, ma sentirmi citare quella frase, "chi non riesce a reggere gli sguardi, ha un terribile segreto da celare", mi aveva mandato fuori di testa, e in quel momento non mi preoccupai nemmeno che lei fosse lì con me e che, soprattutto, fosse stata lei a pronunciarla. Ero impazzito e basta, apparentemente per nulla, ma lei perspicacemente aveva subito capito che qualcosa non andasse. Aveva capito che le nascondevo qualcosa di terrificante. Ma sono quasi sicuro che si era barricata nelle sue mura insormontabili, non perché le nascondevo qualcosa, quanto piuttosto per il mio comportamento folle. Se solo si potesse tornare indietro nel tempo, ritornare a rivivere quel giorno lì, avrei rischiato il tutto per tutto pur di avere l'opportunità di riparare agli errori del passato. Non ce la facevo senza di lei, non ce l'avrei mai fatta, anche se ci avessi messo tutto la mia buona volontà, senza di lei non potevo andare avanti, potevo solo arrancare ed esistere, ma non sarei mai più riuscito a vivere per davvero.
Quella sera, mi decisi a uscire di casa per fare un giro e rendermi conto che, là fuori, il mondo continuava a girare e la vita di tutti, come anche la mia, a proseguire il suo cammino, sebbene mi fossi rinchiuso nella mia camera, sommerso dal dolore e soffocato dall'assenza di Jessica.
Sembra quasi un ossimoro, un paradosso inconcepibile. Come si può restare soffocati da un vuoto incolmabile come la sua assenza? Beh, ora avevo scoperto che si poteva, e che anche gli ossimori, per quanto strambi possano essere, hanno sempre un fondatissimo senso. Imparai che tutto, in fondo, ha un senso, anche se non riusciamo a coglierlo immediatamente. Forse, mai. Ogni cosa, sebbene sembri essere stata posta alla rinfusa, in realtà non lo è, credetemi. Tutto ha una sua logica. Un errore può sembrare che sia stato commesso per puro sbaglio, eppure dipende da ciò che prima abbiamo subìto, dipende sempre dal nostro passato. E così, anche da questo errore, ne conseguirà un altro, che ancora una volta sembrerà essere stato commesso per caso, benché non lo sia. Forse sarà l'ultimo, forse no. Chi può dirlo con certezza? Ci è consentito solo sapere che da qualcosa dipenderà qualcos'altro, anche se noi non vogliamo che sia così. Un'identica situazione si presenta quando abbottoniamo la camicia: se sbagliamo ad affibbiare il primo bottone, sbaglieremo inevitabilmente ad agganciare tutti gli altri. Non sono tutti da classificare come fantomatici "errori", ma sono perdonabili sbagli, che semplicemente dipendono dal primo bottone, che è stato abbottonato nel modo errato.
La vita è così, ma, prima o poi, tutti noi commetteremo l'errore giusto, quello che ci farà comprendere quanto in realtà anche gli altri sbagli siano stati fondamentali per arrivare fin lì, esattamente dove saremmo sempre dovuti essere, perché senza quegli sbagli, non saremmo mai stati noi, e noi non avremmo mai raggiunto la meta del nostro viaggio.
Probabilmente, avrei dovuto accettare ben prima il mio passato, senza permettergli di farmi soffrire tanto. Avrei dovuto confessare ogni dettaglio del mio oscuro passato a Jessica, perché, se davvero mi amava come diceva, avrebbe capito senza alcun risentimento, anzi, mi avrebbe baciato ancora più appassionatamente.
Però, se volete venire a conoscenza di tutta la verità, mi sento in dovere di confessarvi che, quella sera, non uscii di mia spontanea volontà, bensì uscii di casa solo perché Davide si era intrufolato a tradimento nel mio appartamento, e aveva letteralmente trascinato il mio culo stanco giù per strada, nonostante il mio aspetto orribile: occhiaie di chi non dorme da due giorni, che coprii con degli occhiali da sole Ray-Ban, accenni di basette ai lati del viso smunto e capelli per niente ordinati.
Mentre passeggiavamo, Davide insistette più volte nel voler sapere cosa mi stesse succedendo. Il suo tono suonava molto preoccupato, e dai suoi occhi trapelava pura premura nei miei confronti. Mi spingeva a parlare, senza però forzarmi eccessivamente. Stava porgendo molta attenzione nel suo modo di parlarmi e di comportarsi, quasi fossi diventato un campo minato, tempestato di bombe pronte ad esplodere da un momento all'altro.
Sembrava quasi che non mi conoscesse, che non avesse la più pallida idea di come trattarmi. Ma forse si trattava solo della mia fervida immaginazione. Non dovevo lasciare che la fantasia e l'angoscia mi suggestionassero. Non vedevo Davide così in pena per me da anni ormai, e ammetto che mi fece davvero piacere sentirlo vicino, sentirlo di nuovo mio amico. Questa volta per davvero.
Parola dopo parola, sforzo dopo sforzo, gli confessai quasi tutto ciò che provavo per Jessica e la mia sfuriata di due giorni prima, tralasciando le scene piccanti in cui eravamo coinvolti. Ottenni da Davide, con mia grande sorpresa, infiniti e ottimi consigli da poter seguire per riappacificarmi con lei. Eppure non ne seguii neppure uno. Mi piaceva fare di testa mia, e lui ne era perfettamente conscio, ma, essendo mio amico, non poteva fare a meno di aiutarmi e cercare di rendere tutto meno doloroso e problematico. Lo ringraziai, giusto prima che un gruppo di fan sfegatate mi investisse e iniziasse a tormentarmi con fotografie, autografi, video di auguri per le amiche e altra roba.
Amavo le mie fan, era solo grazie a loro se io continuavo a recitare, e per questo motivo tentavo tutto il possibile affinché non le deludessi mai. Detestavo deludere le persone, al contrario, adoravo renderle felici, perché rallegrare qualcuno strappava inevitabilmente un sorrisone anche a me.
Scattai almeno due foto con ognuna di loro, e autografai una ventina di braccia e quaderni, senza dimenticarmi di scrivere una lunga dedica per ogni fan. Erano contentissime, sembravano quasi di essere sul punto di esplodere dalla felicità, tanto era incontenibile. Adoravo il pensiero di riuscire a rendere migliore la giornata di qualcuno, anche con una semplicissima e banale foto. Bastava davvero poco per rallegrare una persona, e tutte quelle ragazze radiose di contentezza attorno a me alleviarono anche un po' del mio dolore.
Mentre stavo firmando un mio gigantesco autografo sulla gamba di una ragazza con un equilibrio sorprendente, perché non barcollò nemmeno una volta e si mantenne perfettamente eretta su un piede solo, vidi Davide chiacchierare amorevolmente con un'altra ragazza dai capelli rossi e vaporosi, con cui avevo scattato un paio di fotografie ben un'ora fa.
Salutai la mora con la gamba autografata, la quale mi stampò un veloce bacio sulla guancia, e mi avvicinai al mio amico sorridente. Troppo sorridente e troppo raggiante.
Quando fui accanto a Davide, egli mi presentò la ragazza dall'aria dolce e affettuosa, che era anche incredibilmente sexy con quella cascata di capelli rossi che le ricadevano sulle spalle, come morbide onde del mare. Credevo di non averla mai incontrata prima di allora, d'altronde viaggiavo senza sosta, e non mi sarei stupito se invece ci fossimo già incontrati e io non mi fossi ricordato di lei. Per mia fortuna, era la prima volta che ci vedevamo, cosicché mi scampai una figuraccia colossale. Si chiamava Annalisa e abitava nei pressi di Via dei Condotti. Frequentava anche lei un corso di teatro, ma era alle prime armi e così ci chiese qualche consiglio del mestiere. Ovviamente, Davide non mi concesse nemmeno il tempo di fiatare che iniziò un lunghissimo trattato sulla recitazione, senza risparmiarsi delle battute, che fecero ridere a crepapelle Annalisa. Avrei riso molto volentieri anch'io, se non mi fosse mancata così tanto Jessica, dunque, mi limitai a sorridere amichevolmente. Furono tutti degli scontati sorrisi di circostanza, in quei giorni. Non sorridevo realmente da quando la porta del mio appartamento si era chiusa con un tonfo assordante, risucchiando la figura snella del mio amore.
Davide non parlava mai così tanto, eccetto se voleva conquistare una donzella, e inoltre non offriva mai consigli gratuiti a chiunque. Sosteneva di comportarsi in questa maniera per principio, e mi ripeteva in continuazione queste testuali parole: "se insegnassi ad un altro attore ciò che so sull'arte della recitazione, costui potrebbe poi rubarmi il lavoro, e niente lavoro comporta niente guadagni per le tasche del paparino".
Per chi non l'avesse intuito, il "paparino" si riferiva a lui stesso.
Davide ci stava spudoratamente provando con Annalisa, e non mi sorpresi quando le fece anche l'occhiolino e le sussurrò qualcosa all'orecchio, che la fece arrossire e sorridere teneramente, prima di congedarci. Era una ragazza davvero molto bella, e avrei scommesso che se avesse indossato anche un vestitino provocante, Davide sarebbe caduto ai suoi piedi in un batter d'occhio. Per quanto parlammo, compresi che era una ragazza intelligente e talentuosa, con grandi progetti per il futuro, speranzosa e tenace. Ai miei occhi apparve simpatica e socievole, e pensai che lei e Davide potessero davvero essere una bella coppia. Non mi sentii mai così felice per il mio amico come in quel momento. Evviva Annalisa!

Oltre la distanza-Cameron Dallas #Wattys2018Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora