CAPITOLO 1 - La casa Inchausti | Parte 3

1.4K 27 0
                                    




Ramiro Ordóñez fu, in un altro tempo, un bambino felice. Se esiste qualcosa peggiore del non aver conosciuto mai la felicità, è prima sperimentarla e dopo perderla. Non una felicità sognante, pubblicitaria, eccessiva. La sua era stata una felicità modesta, ma che bastava. Il motivo della sua beatitudine era sua madre e i suoi ricci dorati, la sua sorellina, la piccola casa dove vivevano, la scuola dove andava, la dentatura sempre bianca e con odore di pulito, tutti i libri che collezionava con passione, l'ora della merenda, il programma di musica che davano il sabato in televisione, la sua camera calda e sempre ordinata, i pochi giocattoli ben conservati che aveva, il cinema un sabato al mese, la chitarra che vedeva tutti i giorni nella vetrina della casa degli strumenti, il salvadanaio in cui sua madre metteva tutti i giorni una moneta e aspettare ansioso che sarebbero diventate tante quante bastavano per comprarsi quella chitarra. Un'attesa felice. Veder crescere Alelì, la sua sorellina, i primi passi di lei, la risata di sua madre quando la piccola iniziò a chiamarlo Rana, perchè Rama non le usciva. Viaggiare con sua madre seduti sull'ultimo sedile dell'autobus, i picnic che lei organizzava per lui e i suoi amici nel parco, i pomeriggi di pioggia leggendo libri di pirati ed extraterrestri, e di caccia al tesoro e all'amore. Tutto quello confermava la felicità di Ramiro. Ma un giorno, in modo impercettibile, sottile come un cambio di stazione, qualcosa iniziò a cambiare. Sua madre sorrideva ogni volta di meno e i suoi ricci dorati persero la lucentezza, la sua dentatura già non era così bianca nè così pulita, già non c'erano più monete nel suo salvadanaio nè nuovi libri, scomparve il cinema un sabato al mese. La chitarra nella vetrina si vedeva ogni volta più lontana. La sua felicità era diventata trasparente, rimaneva solo il sorriso di Alelì, che non si spense mai. E con il passare dei giorni sua madre non solo non sorrideva, ma ora piangeva. Dovettero lasciare la loro casa modesta, pulita, calda. Andarono a vivere da un'amica di sua madre, che sembrava sempre arrabbiata. Sua madre doveva viaggiare, il futuro stava scappando.

E mamma se ne andò. Mamma, all'inizio, chiamava una volta a settimana. Mamma ha detto che manderà monete, quelle che valevano più di quelle che ci sono qua. Mamma ha detto che tutti andranno a vivere in un altro posto, un posto dove sempre era estate. Un posto dove tutti ritorneranno a sorridere. Ma mamma non tornava. Mamma non mandava monete. E mamma smise di chiamare. L'amica di mamma era ogni volta più arrabbiata e trattava molto male Alelì. Un giorno la picchiò. Ramiro sentì odio per la prima volta nella sua vita. Un giorno quella signora li fece salire su un autobus e viaggiarono molto. Andarono fino in un posto molto brutto e freddo, dove li obbligarono a scendere. Alelì aveva solo quattro anni e lui appena dieci. Gli dissero di aspettare lì. Che sarebbe ritornata presto. E se ne andò. Ma non tornò mai. Nemmeno lei ritornò. Si fece notte e Ramiro non sapeva come ritornare. E dovettero crescere di colpo, distendere la pelle, saltare dall'infanzia ad una giovinezza impossibile. E tra le cose che Ramiro imparò, una di queste era una parola nuova, il nome di quel posto dove stavano: orfanotrofio.

Un anno dopo combatteva ancora contro la disperazione e nei pomeriggi, lui e sua sorella scappavano dall'orfanotrofio per andare a chiedere elemosina, con l'illusione di raccogliere denaro per affittare una casa in cui vivere insieme. Con i suoi undici anni, Ramiro credeva che quel sogno era possibile. Un pomeriggio, mentre chiedevano elemosina, gli si avvicinò una donna che fu una promessa di recuperare la felicità persa. Gli offriva una casa, un'infanzia protetta, vivere con altri ragazzi, studiare e poter crescere tranquilli, come meritano tutti i bambini. Ramiro e Alelì arrivarono alla Fondazione BB quando lui aveva undici anni e lei cinque, ma ai pochi minuti dallo zuccherato benvenuto di Bartolomeo, la promessa della felicità recuperata scomparve. Presto capì che la vita sarebbe stata cara nella Fondazione, c'era da pagarla chiedendo elemosina, fabbricando giochi e rubando. Gli dissero che quello era lavorare, che lui era tutto un uomo ed era tempo di farlo. La felicità diventò un niente, più che un ricordo. Ma mentre Justina li conduceva verso le camere, Ramiro vide qualcosa che, per un istante, accese la lucentezza dei suoi occhi: una chitarra.
-Che non ti passsi per la mente di toccarla!- lo avvisò la donna -E' del piccolo Thiago, il signorino della casa- E  fece uscire entrambi dalla sala, ma Ramiro già sorrideva. Quella chitarra, come un eco del passato, per un momento fu un residuo di quella felicità persa.

Lleca era, soprattutto, un ragazzo semplice, di sei anni, e risolveva tutto con semplicità. Aveva vissuto buona parte della sua vita in strada e lì apprese a parlare al «contrario»; tutti lo chiamavano Lleca, strada (calle) al contrario. Sapeva poco di se stesso. Che era stato trovato da un gruppo di «bambini» con il quale stava da quando aveva due anni -un poco più o un poco meno- e che d'allora aveva vissuto per strada. Quella è la sua storia. Punto. Semplice. Si era creato senza avere niente, e quindi non gli mancava niente. Non si lamentava di nessuna perdita, nè dell'assenza di un padre o una madre. Dopo tutto, nessuno dei suoi «amici» aveva un padre o una madre. La sua unica preoccupazione era evitare la polizia o gli assistenti sociali, che terminerebbero portandolo ad un orfanotrofio. Per il resto, aveva la vita decisa. Sopravvivere in «strada», per lui, non era un problema, era qualcosa di facile. Semplice. L'unica cosa che lo disturbava, e per cui a volte si dispiaceva, era non avere un nome. Lui era Lleca, ed era okay, gli piaceva essere Lleca. Era popolare e voluto bene, e difeso dai più grandi. Essere Lleca, in più, significava avere un mondo, essere un negoziatore, quello che otteneva tutto, quello che inventava. Ma non aveva un nome. Tutti nel suo gruppo ne avevano uno, anche se non lo usavano. Il «Bicho», anche se nessuno gli diceva così, si chiamava Martin. Il «Furia» si chiamava Ramon, ma non gli piaceva, preferiva che lo chiamassero Furia. C'era Tito, che si chiamava Robertino; c'era Pancho, che si chiamava Francisco. Tutti avevano un nome, tranne lui.
Un giorno successe quello che più temeva: stava dormendo all'interno di una galleria quando arrivò la polizia con un assistente sociale e lo portarono al tribunale. Dal tribunale lo portarono ad un istituto di minori, e dall'istituto di minori, ad un orfanotrofio. E da lì lo avrebbero trasferito ad un altro istituto se non avrebbe usato la sua astuzia. In quell'orfanotrofio c'era un ragazzo più grande, di dieci o undici anni, biondo e molto combattente. Quel ragazzo, nemmeno lui aveva un nome, lo chiamavano Tacho. Lleca si avvicinò a lui e riuscì a farlo parlare, dato che Tacho non parlava con nessuno. In pochi giorni seppe che il suo silenzioso compagno sarebbe stato trasferito in una fondazione. E allora capì che quella era la sua occasione. Delle ore più tardi, Tacho arrivava, mano nella mano con Justina, alla Fondazione BB. Quando Bartolomeo andò ad aprire il bagagliaio della macchina per prendere le cose di Tacho, incontrò il piccolo Lleca che, sorridente e con astuzia, gli disse: -Che succede, stupido, va tutto liscio?- A cui Barto, preso alla sprovvista e divertito, rispose:

-Molto liscio. E tu chi sei?

-Lleca- rispose lui con semplicità.
Rapidamente, Bartolomeo chiese la tutela di quel piccolo vagabondo e da lì seppe che non aveva un nome.

-Questo è da aggiustare. Ti metteremo un nome. Vediamo, scegli tu, quale ti piace?- Ma Lleca, con una determinazione insolita per un bimbo di sei anni, si negò a ricevere un nome qualunque. Lui era sicuro che sua madre, quando lo mise al mondo, gli avesse dato un nome; e lui userà un nome il giorno che scoprirà il suo.

Casi Angeles - La Isla de Eudamon [ITALIANO]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora