Capitolo 35 - Freedom

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"Sono io Jess, sono qui

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"Sono io Jess, sono qui." La sua voce investe le mie orecchie e arriva dritta al mio cuore come una doccia fredda, qualcosa che mi era mancato così dannatamente tanto e ora riaverlo fa male.
Fa male perché pensi a tutto il tempo che sei stata senza, a tutto il tempo che in silenzio hai sofferto, hai dovuto far finta di niente, hai dovuto ignorare il dolore che ti schiacciava le membra.
Ed ora lui mi dice di essere qui, come se non fosse successo niente, come se questi sei mesi fossero stati irrilevanti.
Ed è la rabbia che finalmente mi dà la forza per voltarmi, mi dona il coraggio di guardarlo negli occhi, e per qualche istante mi ci perdo anche, di fronte a quell'oceano verde così familiare.
Ma non lascio che passi un solo secondo in più e gli volto le spalle, uscendo da quel bagno e con l'intenzione di tornare dalle mie amiche.
Quando i miei piedi si trovano sull'uscio, il mio corpo viene bloccato da una stretta che avvolge saldamente il mio polso, esigendo con quel gesto di rimanere dove sono, di non compiere altre mosse.

"Guardarmi. Jessica, guardarmi." Non lo ascolto e rimango ferma nella mia posizione, osservando i miei tacchi.
Successivamente due dita si posizionano sotto al mio mento, costringendomi ad alzarmi, ma questo non mi impedisce di rivolgere il mio sguardo altrove.
"Per favore..." sussurra infine.

"Cosa vuoi?" Sbotto sul limite dell'esasperazione. Non ero pronta a rivederlo. Ero abituata alla sua assenza. Ero abituata al dolore che mi provocava la sua mancanza.
Ero abituata alla sua indifferenza verso tutte le lettere che gli ho scritto.
Ero abituata al fatto che mi avesse dimenticata, al fatto che le nostre vite erano incompatibili e non si sarebbero potute mai incrociare.
Poi compare dal nulla e pretende che gli parli.

"Te." Esordisce dopo una breve pausa.
I miei occhi inevitabilmente saettano su di lui, i suoi sono già sulla mia figura, attenti e cauti, studiando ogni mia mossa e ogni mia reazione.

Aggrotto le sopracciglia, irritata da quella rivelazione che qualche mese prima mi avrebbe sciolto il cuore, ma adesso, nel sentirlo, non provo altro che rabbia, rabbia perché per colpa sua ho vissuto la mia vita a metà, ho vissuto questi ultimi mesi pensando e rimuginando sul motivo della sua indifferenza nei miei confronti, sul farmi un esame di coscienza e domandarmi se avessi sbagliato qualcosa.
Ed è sempre la rabbia che prende prepotentemente il sopravvento in me, tiene le redini del mio autocontrollo e parla al mio posto, esprime tutto ciò che in un angolo remoto della mia mente pensavo e non ho mai detto a nessuno.

"Cosa stai dicendo, Andrew? Come pretendi di piombare dal nulla nella mia vita e dirmi queste cose? Sono passati sei mesi, cazzo! Sei fottutissimi mesi e tu sei letteralmente scomparso nel nulla! E no, non puoi usare la scusa del carcere perché potevi benissimo accettare le mie visite o rispondere a quelle dannatissime lettere! Hai idea di quanto io ci sia stata male? No, non credo... perché sennò a quest'ora la situazione sarebbe ben diversa." Il cuore inizia a martellarmi incessantemente nel petto, come una palla che rimbalza all'infinito.
I suoi occhi scrutatori e successivamente attaccati da un lampo di dolore, mi provocano una fitta al cuore decisamente più forte rispetto a tutta la sofferenza di questi mesi... e mi fanno quasi pentire di avergli detto quelle cose.
L'attimo dopo entrano due ragazze, mi sposto leggermente per farle passare e le noto osservarci confuse - specialmente Andrew, ma poi si dirigono verso gli specchi e iniziano ad aggiustarsi il trucco senza dire niente.

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