Capitolo 36: He is my All

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Avevo pianto sul corpo privo di vita di Colton, mi dimenavo tra le braccia di mio fratello Aaron mentre mi portava via da lui, che fu caricato su una barella e coperto da un telo. Era colpa mia. Di nuovo. La storia non doveva ripetersi e perché si era ripetuta? Perché io ero una tempesta ed ero sempre la stessa.

Avevo urlato il nome di Colton fin quando non avevo perso la voce, mi davo la colpa e sentivo che stavo di nuovo annegando nelle acque tempestose e misteriose di un mare che non ero io, stavo annegando nel buio più totale, stavo perdendo ossigeno.

Avevo osservato le fiamme che ancora ardevano, io ero l'acqua e Colton era il fuoco. Io non ero riuscita a salvarlo da se stesso, l'avevo lasciato bruciare tra le fiamme, io con la mia tempesta non ero riuscita a placare l'incendio.

Avevo provato il desiderio di correre tra le fiamme, lasciare che la mia acqua si prosciugasse e rimanesse di me una zona arida e malandata, pronta a bruciare per raggiungere ciò che l'aveva fatta sentire viva più che mai.

Avevo tastato nuovamente il terreno in cerca di forze per alzarmi, ma avevo trovato solo pezzi di me distrutti, bruciati. Provando solo il nulla. Il dolore mi aveva ucciso.

Avevo visto tutto attorno a me morire lentamente come se stessimo passando dall'estate all'autunno.

Avevo visto prima il buio. Poi, improvvisamente, tra un tuono e un lampo, una luce accecante mi avvolse come se fossi stata abbracciata dalle candidi e luminose ali di un angelo.

Mi trovato in una stanza buia, senza finestre e senza porte, sentivo le mani incrostate da qualcosa e quando ricordai capii di cosa si trattasse: sangue. Mi strinse le mani al petto, piangendo, l'unica cosa che mi era rimasta: il senso di colpa. Quel posto aveva qualcosa di familiare, anche troppo, purtroppo. E come se la forza dei miei pensieri avesse preso possesso del luogo, una lieve luce illuminò un lavabo. Trascinai letteralmente il mio corpo verso esso, e quando giunsi sotto, misi le mani ai bordi e mi tirai su, notai la presenza anche di uno specchio. Un mostro, ecco ciò che vedevo. Ero un mostro. Aprii il rubinetto e mi affrettai a lavare le mie mani, più strofinavo più il sangue si espandeva, più strofinavo, più il dolore aumentava, più guardavo il mio riflesso, più mi facevo schifo. Anche la stessa acqua iniziò ad essere sporca: rossa. No. No. No. Udii delle voci, forti, chiare, veritiere.

«Sei un mostro». Mi allontanai lentamente iniziando a osservarmi attorno, mi accasciai a terra e tappai le mie orecchie con le mani, come se la voce mi opprimesse e quando il viso adirato di Colton si presentò nella mia mente, feci l'unica cosa mi sentii di fare: urlai. Fu come un'esplosione, lo specchio finii in mille pensi e le voci cessarono. Una porta si materializzò a posto del lavabo e non indugiai a scaraventarmi sopra, si spalancò.

Sentii gli occhi inumidirsi mentre camminavo lungo il corridoio buio e lungo, un'ombra si avvicinò a me e quando fu abbastanza avvicina da riconoscerla ebbi un tuffo nel cuore.

«Mi hai ucciso». Mi guardava sconcertato e con disprezzo palese sul viso e nel tono di voce, indietreggiai scuotendo la testa. Il suo viso era bianco come un cadavere, era ricoperto di sangue e avanzava verso di me con un ghigno sul volto. Non sembrava umano.

«Mi dispiace, mi dispiace». Sussurrai, piangendo e indietreggiando.

«Non è vero». Obbiettò, crudele. Avanzando.

«Charlotte!». Un'altra ombra mi richiamò, stavolta il tono era diverso, era umano. Schizzò accanto a me, afferrandomi la mano, mi trascinò con se, correvo ma era troppo veloce, arrivati alla fine del corridoio, spalancò la porta e la luce invase i miei occhi. Mi voltai a guardare il mio salvatore e vidi che si trattava di Colton, ero parecchio confusa ma iniziai a capire di non trovarmi nella realtà, bensì nella mia testa.

Come una tempestaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora