Il freddo mi accarezzava la pelle, facendomi rabbrividire, un'apatica carezza che non avrei mai volturo ricevere, alle mie orecchie giungevano suoni ovatti, sussurri disgustosi mi fecero desiderare di essere sorda, strinsi più forte le ginocchia al petto e insinuai tra loro la mia testa affinché le voci diventassero più lontane sino a diventare mute. Ma sapevo che non sarebbe servito, sapevo che i miei demoni mi stavano torturando, come sempre d'altronde, rendevano anche ciò che desideravo fare, per porre fine al fiume di sensi di colpa in cui stavo annegando, ovvero sognare, orribile. Lo rendevano uno strazio. Una folata di vento mi travolse così violentemente che mi fece traballare, ma sapevo che non era una vera e propria folata di vento, da quando era morto James mi trovavo sempre in questa stanza buia e fredda che di tanto in tanto andava a fuoco, ma io ne rimanevo illesa, il fuoco ardeva attorno a me ma non mi sfiorava. Come se non fossi degna di morire travolta dalle fiamme oppure come se il fuoco avesse paura di me e, per quanto inadeguato il pensiero, mi sentivo potente come se potessi avere la meglio sul fuoco, ma ciò durava poco perché i miei demoni, che non erano altro l'incarnazione dei sensi di colpa, tornavano a torturarmi. Ormai non avevo più paura, non avevo paura perché sapevo che non mi avrebbero mai fatto del male fisicamente, perché sapevo che non sarei morta, perché sapevo che quel luogo era mio e non dovevo avere paura, era il posto presente nei miei sogni in cui potevo rifugiarmi nel dolore, arrivai a pensare che questa stanza era stata creata appunto da esso -il dolore-, poiché tutto era cominciato dalla morte di James. Diverse risate giunsero alle mie orecchie, alcune divertite altre malefiche, ma tutte erano causate dalle battute nei miei confronti, le risate erano pungenti, non osai alzare la testa per guardare in faccia i miei demoni, non per paura, ma perché erano ciò che immaginavo, ombre con denti aguzzi, ognuno con una mia caratteristica sia fisica che caratteriale. Nella stanza calò il silenzio quando una voce acuta interruppe tutto.
«Ti sei sporcata le mani del tuo stesso sangue.» Il cuore mi si strinse così forte, che lo sentii rimpicciolirsi secondo dopo secondo, il dolore era così forte che mi fece portare una mano all'altezza del petto, come se, anche attraverso il tessuto di seta della camicia da notte, avessi potuto afferrare il cuore e fermare questo cambiamento. Quella voce aveva una sfumatura umana che mi fece alzare la testa ma, in quel momento, nella stanza non c'era nessuno, se non una candela che, improvvisamente, si accese. Mi buttai sul pavimento, priva di forze, sentendo nuovamente che la ferita all'altezza del cuore si stava riaprendo a da lì stava sgorgando molto sangue, lo percepii attraverso il tessuto che diventò zuppo, ma non osai togliermi la camicia da notte poiché sapevo che, in un modo o in un altro, l'avrei avuta sempre addosso. Non camminai, non gattonai, bensì strisciai con l'ausilio delle braccia, le mie gambe non accennavano a muoversi, come se fossero paralizzate e ciò non aiutava. Le risate si espansero nella stanza, di nuovo, risate sadiche che mi disgustavano e mi fecero rabbrividire, percepivo sguardi divertiti su di me, tuttavia quando alzai lo sguardo non vidi nessuno, o meglio, niente: se prima vedevo vagamente il soffitto e le pareti, in quel momento vedevo solo il nulla come se mi trovassi nell'oblio, quando abbassai lo sguardo e continuai a trascinare il mio corpo lacerato da una ferita che non riuscivo a sanare, notai con orrore che il pavimento di linoleum blu stava iniziando a rivestirsi di una sostanza simile alla pece, come un mantello che si stava espandendo, questa sostanza che, quando lo toccai, risultò liscia e lucida, aveva lo spessore davvero piccolo infatti riuscivo ancora a toccare il pavimento freddo, anche se, ebbi la sensazione che quella sostanza potesse davvero inghiottirmi, infatti mi affrettai a raggiungere la candela accesa la cui cera cadeva lentamente su quel mantello, dandogli un tocco di colore.
«Hai ucciso tuo fratello, assassina.» Urlò qualcuno divertito, che poco dopo scoppiò a ridere, mi accovacciai a terra, esausta e mi portai le mani sull'orecchie per tapparle.
«Basta.» Sussurrai disperata, chiudendo gli occhi, stringendo le palpebre così forti che mi fecero male, infatti le aprii leggermente, riuscivo ad intravedere quelle ombre, le mie. E solo questa visione mi fece capovolgere lo stomaco. Ma le risate non diminuirono, mi deridevano senza nasconderlo, mi facevano male senza fermarsi neanche un secondo. Solo in quel momento capii che erano arrivati a tanto solo perché io glielo stavo permettendo, io avevo permesso di iniziare ciò, io potevo mettere fine.
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Come una tempesta
Romansa«Più le persone sembrano capirmi, più trovano informazioni per ferirmi». Questa era la verità che tormentava Charlotte ogni volta che era sola, ogni volta che i suoi demoni la torturavano, quando annegava nei sensi di colpa, ogni volta che crollav...