Capitolo tre

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Camila era estenuata, prosciugata di ogni energia. Ormai dormiva tre o quattro ore, se era fortunata, a notte.

Non c'era tregua, non le era mai stato concesso un momento di stallo in cui riprendere fiato.
Quegli incubi tremendi e insaziabili si nutrivano della sua paura. Ipertrofici e dispotici si mascheravano dei suoi endemici timori, soffocandola in un alone nero che poi mostrava sempre il suo sguardo, come se volesse che quello, e solo quello, fosse ricordato distintamente.

Aveva pensato di passare da Gregor, un compagno di classe che sottobanco offriva uno spaccio vasto di pasticche, fra cui nondimeno sonniferi. Aveva davvero bisogno di riposare, avvertiva il suo corpo sempre più stanco e pesante. Di riflesso, pure la sua mente veniva contagiata e provata molto, combinando un mix di stanchezza e distrazione che costringeva Camila in uno stato perenne di prostrazione.

I suoi voti erano notevolmente abbassati, non erano risultati drastici, ma in confronto agli anni pregressi aveva subito un peggioramento visibile. Tutta quella situazione la stava divorando viva, e lei non aveva la minima idea di come o cosa fare per svincolarsi da quegli incubi.

Forse parlarne con qualcuno l'avrebbe aiutata a capirli, e ciò li avrebbe allontanati, ma non solo si sentiva infantile e stupida a spifferare che la notte se la faceva sotto a causa di "brutti sogni", ma non aveva neanche l'arsenale adeguato per mettere tali indiscrezioni sotto una lente d'ingrandimento e mostrare come davvero si sentisse a riguardo. Tutte le emozioni che provava le tratteneva il sogno, lei era capace di percepirle tutte insieme solo un secondo al risveglio, poi più niente. Le restava appiccicata addosso una sensazione di pausa e angoscia, ma non sapeva come descriveva dettagliatamente tutto ciò che i suoi incubi realmente le facevano provare.
Era ad un punto morto.

Quella era una mattina particolarmente uggiosa. Un cielo plumbeo adombrava la città che già di per se tendeva al grigio, sfiorendola ancora di più. Camila era un po' meteoropatica, dal momento che una giornata fiacca influenzava negativamente il suo umore, mentre un pomeriggio soleggiato le infondeva benessere e slanci artistici. Ma, stranamente, era contenta che il sole non le abbacinasse la vista, e che nessuna temperatura scottante l'atterrisse ancora di più.

Scese alla fermata e fece rifornimento di benzina al bar. Un buon cappuccino espresso era il carburante di cui aveva bisogno per ingranare la giornata. Non era molto affezionata alla caffeina, non solo perché in passato aveva riscontrato piccoli problemi cardiaci legati alla sostanza, ma anche perché sapeva quanto efficiente e ricettiva la facesse sentire, il che, a volte, le mandava in tilt il centro di controllo. Perdeva l'orientamento, senza scherzi. Si sentiva fin troppo efficiente e ricettiva. La sua concentrazione si frazionava in più stadi, ed ognuno di essi esigeva la perfezione. Ecco perché si era sempre focalizzata su un solo ambito; il multitasking non era pane per i suoi denti.

Anche se poteva sembrare una reazione esuberante, era proprio questo che le accadeva con il caffè. Così come con la birra, o qualsiasi altro alcolico. Ci voleva davvero un irrisorio quantitativo per farle perdere le redini. In tilt.

Tentò di zuccherare l'aroma per disperdere l'effetto della caffeina, ma in realtà era solo un meccanismo psicologico che la illudeva di aver mitigato il suo personale narcotizzante. In un altro momento avrebbe rifiutato categoricamente di ricorrere a quell'ausilio, ma era definitivamente stanca, e non avrebbe potuto affrontare un'intera giornata scolastica senza addormentarsi se non avesse ingurgitato quell'intruglio che ormai più che caffè con zucchero era diventato zucchero con caffè.

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