Il coraggio di tornare

217 10 16
                                    

Accavallò prima la gamba destra sulla sinistra e poi la sinistra sulla destra, tamburellò con le dita sulla superficie di legno del tavolo, tentò persino di distrarsi guardando di sottecchi un gruppo di uomini che, tra le risatine stupide di alcune ragazze compiacenti, giocavano una partita a carte con un sottofondo di irripetibili imprecazioni. Arya cercò davvero in tutti i modi di porre fine a quella strana sensazione che avvertiva in fondo al petto, ma più ci provava e più quell'inspiegabile nervosismo si accresceva in lei. "Cosa diamine ti prende, Arya?", si chiese, ma un istante dopo, quando tornò a spostare lo sguardo sull'apertura nascosta per metà da una tenda di velluto rosso, i suoi pensieri si interruppero perché lì, in mezzo ad un via vai di ragazze mezze vestite e mezze no, due profondi occhi color nocciola erano fissi su di lei. Arya distolse velocemente lo sguardo, perché nonostante fossero passati anni, avvertire quegli occhi su di sé la faceva sentire ancora nuda e vulnerabile, spogliata di ogni maschera e ogni finzione: era così, nonostante tutto quel tempo, nonostante tutto quello che li aveva portati fino a quel tavolo in uno squallido locale di Parigi, Jonathan riusciva ancora a leggerle nell'anima come nessun altro mai sarebbe stato in grado di fare, e questo la spaventava e la rassicurava al tempo stesso.

Esitò ancora qualche altro istante, poi Arya si costrinse a tornare a guardare di fronte a sé, appena in tempo per vedere Jonathan parlare con una donna che reggeva con una mano un vassoio pieno di bicchieri vuoti e poi dirigersi verso di lei: prese allora un profondo respiro, raddrizzando la schiena contro il duro schienale di legno e sforzandosi un'ultima volta di svuotare la mente e il cuore di tutti quei sentimenti strani e inaspettati che l'avevano travolta.

-ci porteranno del whisky a minuti, ricordo che odiavi il bourbon-

-grazie, ma non sono venuta qui in questa specie di... locale, per un'allegra rimpatriata-

Gli rispose Arya, esitando su come definire quel luogo triste e brulicante di facce losche. Jonathan accennò un sorriso amaro, scostando la sedia di fronte a lei e accomodandosi. Quando tornò a guardarla Arya ebbe come l'impressione che lui stesse per accusarla di essere lei stessa la causa per cui entrambi si erano trovati in quel posto malfamato, ma poi disse semplicemente:

-lo immaginavo, e un elegante salotto alla confraternita sarebbe stato di certo più adatto, qualsiasi cosa tu sia venuta a dirmi, ma anche più noioso, e in ogni caso, non credo mi avrebbero accolto a braccia aperte, mio padre no di certo-

-perché l'hai fatto? –

Gli chiese Arya, trasformando troppo velocemente i propri pensieri in parole, prima che il filtro che si era imposta di mantenere durante quella conversazione potesse impedirle di divagare.

-fatto cosa? –

-perché te ne sei andato? –

Era una domanda stupida, forse persino ingiusta da parte sua, ma ormai era troppo tardi per rimangiarsela, così Arya rimase in attesa che Jonathan dicesse qualcosa, tuttavia l'uomo si limitò ad accennare un sorriso che parve sinceramente divertito

-vedo che sei stata a trovare anche Gabrielle, come sta? È nato il secondo pargolo? –

-è una bambina-

-ah, certo, sì. Una bambina. Suo marito non fa che parlarne, tra un bicchiere e l'altro-

Arya scosse la testa disgustata.

-perché non hai fatto niente per aiutarla? Gabrielle era anche tua amica, mi pare-

-non le ho detto io di sposare quell'idiota. C'è sempre un'alternativa, tu dovresti saperlo meglio di me-

Le disse, lasciando in sospeso quelle parole tra loro, mentre una cameriera lasciava scivolare sgraziatamente un paio di bicchieri di liquido ambrato sul tavolo.

LumosDove le storie prendono vita. Scoprilo ora