Capitolo 61: Mark

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Mancavano cinque minuti alla fine delle lezioni. Il che annunciava che anche quella maledetta giornata sarebbe quasi giunta al termine.
Fissavo la porta con insistenza, sbattevo il piede ripetutamente e con forza sul pavimento. Quei trecento secondi sembravano non voler passare più.
E poi, finalmente, il suono più dolce, meraviglioso, magico, quello che ogni studente ama: la campanella dell'ultima ora.

Balzai in piedi in un attimo ed uscii per prima dalla classe.
Camminai velocemente attraversando il grande corridoio, quando vidi un tipo. Un bidello, nuovo.
Capelli neri, con numerosi ciuffi grigiastri. Una tenuta blu, con le maniche arrotolate fino agli avambracci, tanto da scoprire il serpente tatuato attorno al braccio sinistro. Una barba non troppo folta, dello stesso colore dei capelli.
Alto almeno un metro e novanta; io in confronto sembravo un nano da giardino.
Puliva il pavimento con un semplice mocio, non mi aveva vista.
Per fortuna.
Sembravo una psicopatica.
Gli passai di fianco senza staccargli gli occhi di dosso, quando però si voltò.
Mi stava fissando anche lui.
Ma perché? Perché ci stavamo guardando?

Due iridi bianche, un viso scavato, occhiaie profonde e labbra screpolate.
Abbassai gli occhi sulla sua targhetta.
"Mark M.".

«Mark Morris.» sussurrai.

«Prego?»

«Sei...Mark Morris.» sentii la bocca asciutta, indicai la targhetta.

«Ci conosciamo?»

«No.» mormorai.

Ero sicura di avere in viso un'espressione terribile, da killer.
Incurvai le sopracciglia verso il basso, sentii le mani bagnarsi di sudore.

Ma che giornata di merda.

«Hai-hai bisogno di qualcosa?» chiese in imbarazzo, guardandomi dritta negli occhi.

Di mia sorella, volevo rispondergli.

«No.»

Mi guardò come se stesse parlando con una pazza. Indietreggiò di un passo, si voltò. Poi tornò di nuovo a guardarmi.

«Sicura di non conoscerci? Ho già visto i tuoi occhi.» sorrise, appoggiando il braccio sul bastone del mocio. «Non mi sbaglio su queste cose.»

«Fammici pensare.» portai un dito sul mento e finsi di pensarci su, alzando lo sguardo ed assottigliando gli occhi. «Sedici marzo duemilaedodici. Ti dice qualcosa?»

La mia domanda lo fece trasalire.
Strabuzzò gli occhi e si avvicinò a me di un passo.
Ormai la scuola era vuota, nemmeno ce ne eravamo accorti di essere rimasti soli.

«Chi sei?»

«Keira, la sorella di Harriet. Ricordi la ragazzina a cui hai tolto la vita per qualche birra di troppo? Il piacere è mio!» sorrisi in maniera radiosamente finta.

«Kelley.» sussurrò. «Kelley, Kelley, Kelley.»

«Sì, è il mio cognome.»

Chiuse gli occhi per qualche secondo.
Quando li riaprì, un velo di lacrime gli stava circondando le iridi.
Non provavo pietà per lui.
Avrei voluto ucciderlo, sul serio.
Mi guardò e rivide Harriet.
Posò le mani sulle mie spalle e le scosse un po'.

«Harriet.» sussurrò ancora.

«Toglimi le mani di dosso!» strillai, allontanandomi di qualche passo indietro.

«Harriet è morta.»

«Grazie per la delucidazione, non me ne ero accorta.»

«Mi dispiace.»

Sopra lo stesso tetto | #Wattys2019Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora