Capitolo 27: Macerie

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La battaglia era giunta al suo sesto giorno, ma la fine sembrava vicina: le truppe di Seamus erano esauste e i soldati di Kamal continuavano ad abbandonare le linee; i ribelli erano stati decimati, e persino gli uomini di Alec avevano subito gravi perdite. Nessuno aveva più la forza di continuare.

La morte di Ares aveva messo addosso alla Resistenza una forza nuova, una tenacia e una rabbia immensa ma, tuttavia, faticava a lottare contro quegli uomini dalle energie inesauribili.

Le Armate Nere stavano vincendo.

Ormai erano loro a schiacciare le squadre di Kamal e quelle di Seamus sulle mura del castello, mentre i ribelli gli stavano alle spalle. Combattevano con una ferocia inaudita, e i loro colpi non diminuivano né in forza, né in precisione.

Entro la fine di quel giorno avrebbero conquistato il castello e sterminato ogni nemico.

Un corno suonò nell'aria. I soldati Neri abbandonarono il campo di battaglia lasciando gli altri paralizzati dal rumore. In pochi minuti salirono sui carri rimasti usando anche quelli dei soldati di Seamus e dei ribelli, e lasciando tutti gli altri soli in mezzo al campo di battaglia, senza sapere bene cosa fosse successo. Le truppe alleate non attaccarono neppure la ritirata tanto era stata inaspettata, e rimasero immobili per quelle che parvero ore, con le spade ancora pronte in guardia alta.

Nayél, ferito alla testa e a un polpaccio, fu il primo a lasciar cadere l'arma, che raggiunse la strada acciottolata con un tonfo sordo. Come i cerchi che si propagano sulla superficie dell'acqua, quando qualcosa ne rompe il perfetto equilibrio, così il gesto del ribelle dai capelli rossi echeggiò per le strade desolate di Sansea, risvegliando i compagni da quello che sembrava un incantesimo che li aveva immobilizzati. Si guardarono attoniti l'un l'altro, poi da qualche parte qualcuno si accasciò al suolo e rise fin quasi alle lacrime; la tensione si dissolse nel nulla, e abbozzi soffocati di riso isterico si diffusero per tutta la città.

Inspiegabilmente ce l'avevano fatta. Erano vivi.

Enora si avvicinò ad Arkara, gli occhi verdi lucidi e un sorriso tremante sul volto stanco e ferito. Lasciò andare l'elsa che cozzò con l'elmo di chissà chi caduto poco lontano dai suoi piedi, e strinse la sua migliore amica in un abbraccio che esprimeva tutta la gioia di poter ancora assistere alla bellezza del sole che tramontava.

«Abbiamo vinto» sussurrò la ragazza dai capelli rossi, come se avesse paura di dirlo a voce alta, come se i soldati di Alec potessero riapparire dal nulla.

Nahil guidò il suo esercito verso l'accampamento in una marcia stanca e disordinata. Sembrava l'unico a non gioire di quella vittoria e aveva l'impressione che, dalla morte di Ares, non sarebbe più stato in grado di gioire di niente. Quando finalmente le gambe lo trascinarono nella tenda in cui c'erano ancora le carte spianate sul tavolo, Christopher era lì ad attenderlo.

«Ah, ce l'hai fatta a venire, dopotutto».

L'uomo dagli occhi verdi era seduto sulla terra nuda, le gambe incrociate e un'espressione contrita sul volto.

«Ho saputo di Ares».

Nahil annuì stanco, non voleva parlarne in quel momento, così mosse a fatica i piedi per uscire fuori di lì.

«Mi dispiace non essere arrivato prima» continuò l'ex soldato massaggiandosi la barba ispida, poi si issò in piedi e raggiunse l'amico che si era fermato dandogli le spalle.

«Tanto tu non combatti, vero, Christopher? "Userò la spada solo per proteggere mia figlia", lo hai promesso, ricordi? Non sarebbe cambiato nulla».

«Non mi assumo la responsabilità della sua morte, Nahil. Sono qui per Enora». Si fermò a pochi passi dal generale degli Elyse, il braccio in procinto di toccargli una spalla mollemente fermo a mezz'aria. Nahil si voltò, gli occhi scuri e vuoti fissi sui suoi.

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