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MAKT, ZEKA - 28 GENNAIO 4567 DEL CALENDARIO TERRESTRE


Entrando nello studio di Alexei Melnyk, la prima cosa a cui pensò Valentine Harvel fu quanto fosse diverso dal suo ufficio. A Elu, dove viveva lui, il panorama era rilassante: tinte verdi e dorate coloravano le sue giornate e spesso trovava illuminante dedicare qualche minuto a godersi il paesaggio, immerso nei suoi pensieri.

Makt non era così. Era una metropoli affollatissima, piena di grattacieli di immacolato plastacciaio che si stagliavano alti ovunque ci si girasse. Le complicate costruzioni erano spigolose, punteggiate di rado da piante e fiori e più spesso da insegne al neon o pannelli olografici. Persino le strade erano dello stesso bianco plastico degli edifici, così perfette da sembrare finte. Nonostante il via vai di mezzi e di persone, la capitale pareva appena uscita da una pubblicità: ordinata, pulita, luminosa.

E poi, c'erano le cupole: immense vetrate di sottili ma resistenti esagoni trasparenti, intervallati da un invisibile telaio d'acciaio. Ricoprivano le città di Zeka come un velo protettivo, rendendole ancora più stupefacenti agli occhi di uno straniero come lui. Erano state progettate su commissione del governatore Melnyk nell'ultimo anno, allo scopo di filtrare in modo sicuro i pericolosi raggi ultravioletti e l'aria inquinata che avvelenava il pianeta.

Valentine sapeva che la regione era famosa per i suoi avanzati progressi tecnologici, ma vederli dal vivo faceva tutt'altro effetto. Aveva subito compreso che quello era il preciso intento di Alexei, perché la scorta zekiana mandata per condurlo al suo laboratorio pareva aver allungato il tragitto di proposito. Il kutsalese doveva ammettere che quella visita turistica era tanto inaspettata quanto gradita.

Makt sembrava uscita da un racconto di fantasia e, a renderla ancora più spettacolare, c'erano le serre artificiali. Si trattava di rettangoli di vetro, impilati gli uni sugli altri come container a formare quella che, da fuori, sembrava una scala a chiocciola dai gradini fatti di tanti ecosistemi diversi. Aveva riconosciuto il rosso dei pomodori e il verde chiaro della lattuga, le forme tondeggianti delle zucche e delle melanzane, gli alti fusti delle spighe di grano e i tronchi dei variopinti alberi da frutto. Ogni contenitore racchiudeva una piantagione diversa, isolata dal resto e monitorata con attenzione da piccoli droni che ronzavano qua e là al loro interno. A volte si avvicinavano e scannerizzavano il terreno o le foglie, inviando chissà quale informazione a chi di dovere. In un paio di occasioni Valentine aveva notato una persona sbucare al loro interno come apparsa dal nulla, avvicinarsi a una pianta e controllarne lo stato con dei misteriosi marchingegni.

Durante il suo giro aveva adocchiato tre di quelle costruzioni, simili nella forma ma diverse nei contenuti. Aveva subito trovato strano che fossero tenute in bella vista in mezzo alla città, quasi come fossero opere d'arte o monumenti. Eppure, si trattava solo di serre: edifici necessari al sostentamento della popolazione, non certo installazioni artistiche.

Poi, quando aveva visto uno di quei container sbuffare, aveva capito.

L'aria all'interno della cupola veniva prodotta proprio da quei polmoni disseminati in tutta la città e purificata di volta in volta tramite un sistema di ricircolo. Ecco perché gli sembrava di respirare diversamente e di sentirsi leggero e frizzante!

Quella tecnologia avrebbe potuto cambiare le sorti di Nepher, se solo Alexei l'avesse condivisa con il resto del mondo. Il kutsalese se ne era convinto ancor di più durante il pranzo, quando aveva addentato una succosa bistecca di manzo intinta in una salsina verde che sapeva di zucchine e prezzemolo. Per lo stupore aveva quasi pianto: da quanto non mangiava pietanze terrestri? Anzi, da quanto non mangiava cibo vero, non liofilizzato né creato in laboratorio?

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