3 - Brooklyn, 1942

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Il sole cominciava ad albeggiare spuntando da dietro le chiome degli alberi, irradiando di un accecante vermiglio, il paesaggio sottostante.
Attraverso le tende bianche, il sole stava illuminando timidamente, con i suoi dolci raggi, le silhouette del mobilio di quello studio dapprima così spettrale, ridonandogli calorosa vita.
Ma una figura in particolare si stagliava perfettamente rispetto alle forme squadrate, e poco ricercate, dell'arredamento; Howard, ricurvo sulla scrivania, si era addormentato di nuovo nel suo studio.
Le sopracciglia aggrottate non conoscevano altra espressione se non quella contrariata che lo accompagnava in viso costantemente, ed erano perfettamente in contrasto con la bocca che era leggermente aperta, e da cui colava un rivolo di bava, che aveva bagnato il foglio sottostante. Quel piccolo particolare, nonostante i lineamenti ben marcati e costantemente contorti in espressioni di rabbia, gli donava, stranamente, un'espressione più infantile, fanciullesca, rendendo il suo cupo volto più luminoso.
Il vecchio, ancora stretto tra le braccia di Morfeo, dormiva beatamente, cullato dal piacere provocato dai propri sogni.
A volte, le sue sottili labbra emetteva un versetto, un gemito, o pronunciavano appena una parola strozzata, a tratti incomprensibile. A volte, invece, capitava che russasse così forte da riuscire a svegliarsi da solo per il troppo rumore. Sfortuna volle per Howard, che questa era una di quelle volte.
Il vecchio si svegliò di soprassalto, spaventato dal rumore del suo stesso russare. Per un breve istante si guardò attorno confuso, cercando di trovare la fonte di quel rumore, per poi capire di essere stato lui stesso.
Si schiarì la gola, e con fare composto si raddrizzò sulla poltrona, assumendo la sua tipica posa ferrea e autoritaria. Con il dorso della mano si asciugò la bocca dalla bava e, guardando l'inchiostro sbavato del foglio che aveva rovinato, mise le mani sulla scrivania, cercando di raccogliere tutte le carte sparse.
La notte prima era stata un buco nell'acqua, ancora non aveva trovato il capitano. Non era riuscito a risolvere quel quesito che lo tormentava da decenni, non aveva ancora trovato la risposta.
Eppure era lì, davanti ai suoi occhi, di questo ne era certo, ma forse era così semplice, da non riuscire a vederla.
Prese il mucchio di fogli che aveva raccolto, lo sbatacchiò sulla scrivania cercando di metterli in maniera ordinata, poi li posò di lato e, abbassando la testa, guardò la mappa.
Era una cartina topografica datata 1940, su cui era stata stampata l'America durante la seconda guerra mondiale. Accanto, invece, vi era quella di New York, sempre del medesimo anno. Entrambe erano cosparse di scritte e segni rossi fatti con un indelebile che, a vederlo, era quasi scarico.
Per ogni cerchio segnato su quelle mappe dai bordi frastagliati e ingialliti, vi era una foto che ritraeva il capitano in quel luogo specifico.
In molte delle foto, il capitano appariva mingherlino, piccolo e quasi mal nutrito, mentre in altre, invece, appariva molto più tonico, con i muscoli ben definiti, alto e robusto. L'unica cosa che non cambiava era lo sguardo. Si, Howard ricordava bene quegli occhi, di un azzurro così limpido, particolare, sembra quasi come avesse due raffinati topazi incastonati al posto delle iridi. Il suo sguardo era vivo, determinato, animato costantemente dalla fiamma del suo spirito ardente, desideroso di dimostrare che lui era più di un semplice ragazzo di Brooklyn, deciso a far vedere al mondo intero, il proprio valore.
Howard prese una delle tante foto del capitano tra le mani: era un primo piano del giovane prima del siero, era mingherlino, piccolo, fragile. La foto lo ritraeva di tre quarti, indossava una maglietta bianca, lo sguardo fisso su chissà che cosa, la bocca contorta in una smorfia, forse era stanco o forse era accaldato. Si ricordò di quando fu scattata quella foto: era stata fatta al campo militare, uno dei primi giorni di addestramento per il capitano e il sole, si ricordò Howard, era particolarmente afoso quel mattino.
Si ricordò della prima volta che lo vide: era uscito a fumare una sigaretta per staccare cinque minuti dal lavoro, e lo guardò buttarsi su una granata disarmata che Peggy aveva lanciato a terra, vicino alle reclute.
Si ricordò di come, in quel momento, davanti a quella scena, avesse pensato che lui era degno di essere sottoposto all'esperimento. Il buon cuore di quel gracile ragazzo, il suo ardente coraggio e la sua anima candidamente pura, erano limitati soltanto dal suo corpo esile e fragile, come fosse stato una specie di gabbia che gli impedisse di spiccare il volo, e Howard, in quel momento, aveva deciso che sarebbe stato lui stesso ad aprire quelle sbarre, e lasciarlo volare, mostrando al mondo intero le sue meravigliose ali.
Il vecchio strinse forte quella foto tra le mani, se la portò davanti alla faccia e, chiudendo gli occhi, la poggiò delicatamente sul viso, facendola sfiorare con la fronte e la punta del naso.
Lo studio, così come l'intera villa, era sommerso in un silenzio tombale, profondo, mistico, e chiunque avesse osato parlare, o anche solo proferire un timido sussurrò, si sarebbe macchiato per sempre, del peccato di aver interrotto quel momento così intimamente puro.
La mente di Howard spaziò tra i suoi numerosi ricordi, le lacrime cominciavano a farsi spazio nei suoi occhi, ma con magistrale freddezza, riuscì a trattenerle. Avrebbe voluto dire molte cose a quella foto, provando ad esorcizzare il fantasma del capitano che lo accompagnava giorno per giorno ma, tra tutto ciò che voleva dire, solo una parola uscì dalle labbra tremanti del vecchio, mentre le lacrime, ormai sfuggite al suo freddo controllo, cominciarono a rigargli le guance.
«Steve...».

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