34. Tana libera tutti

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«Ciao, Yoshi».

Lui non si voltò. Rimase immobile e rilassato nel completo scuro, lo sguardo al panorama sottostante, oltre l'imponente vetrata della suite in cui alloggiava. Quella vista lo entusiasmava, ci avrei scommesso: la città intera ai suoi piedi, china come una serva a baciare le scarpe del grande e infaticabile Yoshi Sakurada.

«Ciao... Beeatrix».

Non mi preoccupai di reprimere un conato. Il mio nome, nella sua bocca, non ci doveva stare. Avanzai lentamente lungo il parquet incerato, ammirando la magnificenza di quella camera da letto. La luce soffusa del primo pomeriggio inondava le pareti verde petrolio, generando un riverbero opaco, un fluido irreale. Ascoltai il ticchettio dei miei passi nel silenzio abissale, talmente duro da far male alle orecchie. Eravamo soli, ed io mi domandai se in quella lotta impari avrei finalmente avuto la meglio.

Mi dispiace di averti mentito, Taehyung. Mi dispiace di aver mentito a tutti. Ma questa cosa riguarda me, ed io sola posso porvi rimedio.

Accesi il registratore nascosto nella borsa - quello che Yoshi avrebbe trovato se avesse voluto cercare - e appoggiai i miei averi sul tavolo di mogano. L'altro registratore ce l'avevo incollato alla schiena con due giri di nastro isolante, quello con cui avrei tanto voluto legarlo e buttarlo sul fondo del fiume Han. Sentendomi trafficare, Yoshi si voltò.

Per un attimo rimasi folgorata dalla sua bellezza. Nella luce densa di Seoul, rifulgeva pallido e affilato come una scheggia, i capelli corvini perfettamente spettinati, quasi essere tanto attraente non gli costasse alcuno sforzo. Avevo conosciuto a mie spese l'altro lato della medaglia, il prezzo da pagare. Dentro, Yoshi Sakurada puzzava e bruciava come l'anfratto più remoto dell'inferno.

«Beeatrix Lee» ripetè, facendomi venire la pelle d'oca, e solo allora mi accorsi che reggeva due Martini Dry, il suo drink preferito; me ne porse uno con fare galante.

«Vuoi che te li sputi in faccia? Ho una buona mira».

Lui rise e li bevve entrambi in due soli sorsi. Per qualche indecifrabile motivo, sentì lo stomaco contorcersi all'istante. Come poteva essere sempre così indifferente, mentre io mi corrodevo dall'interno? Cercai di mantenere la calma; se le cose si fossero messe male, avrei raggiunto la porta appena dietro di me. Non ero in trappola, non ero in pericolo. E allora perchè sentivo di esserlo? Perché solo condividere il suo ossigeno mi rendeva minuscola e vulnerabile?

Perchè qualcosa non va.

Decisi di non zittire la mia voce interiore, ma di rimanere vigile; perché c'era qualcosa di assolutamente sbagliato in tutta quella faccenda. Solo, non riuscivo a vedere cosa fosse.

«Visto? Non li avevo mica drogati. Sei malfidente».

«E tu sei una merda, ma passiamo a fatti meno ovvi».

Lui scosse la testa e addentò le olive con i denti bianchissimi, sfilandole dagli stuzzicadenti con un'attenzione chirurgica. Istintivamente cercai di spaventarlo per farlo strozzare, emettendo un suono acutissimo, ma Yoshi aveva l'aplomb di un monaco Shaolin, i riflessi pronti di chi è avezzo all'odio altrui.

«Mi vuoi ammazzare?» ghignò, per niente intimorito dalla mia espressione più feroce. Al contrario, sembrava esageratamente... contento.

«Passiamo a fatti meno ovvi, ho detto» sibilai, decisa a porre fine a quella pantomima, «sono qui perché vuoi minacciarmi, la cosa che ti riesce meglio».

Lui sospirò, fingendosi affranto, e prese a misurare la stanza a grandi passi, spargendo nell'aria il suo pungente profumo di cedro e abete. Lo detestavo, m'incendiava le narici, mi offuscava la vista.

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