29. Di uomini e di mostri

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Yoshi era un demone.
Una bellezza contundente, mordace. Aveva modi passionali, remoti. Il perfetto gentleman, un bugiardo insospettabile. Era il tramonto dei miei giorni, il buio della mia vita. Yoshi era il diavolo.

«Manager, se non esci immediatamente di lì sarò costretto a sfondare la porta».
Namjoon parlò con voce calma, dolce come una carezza, ma in cuor mio sapevo che se avessi continuato a fingermi morta mi avrebbe trascinato fuori con la forza. Non avrei saputo dire da quanto eravamo lì, nel bagno dei dipendenti - il bagno delle donne, in cui Namjoon si era intrufolato sfacciatamente, boicottando il mio piano di seminarlo. Alle colleghe che entravano, per niente scontente di vederlo, s'inchinava chiedendo scusa e mentendo. La signorina Lee ha mangiato pesce crudo. In pratica aveva raccontato a mezza agenzia che avevo la cacarella.

Esaminai il mio riflesso stropicciato nella cromatura dello scarico - il ritratto della disperazione - e con uno scossone la porta del bagno si aprì. Il volto incredulo e trafelato di Namjoon mi si parò davanti.

«Come accidenti hai fatto ad aprire?».

«Io... non saprei, ho solo... girato». Lui si guardò le mani, in una reggeva il pomello, scardinato. God of Destruction colpiva ancora. «Certo è che non esistono più le serrature di una volta».

Namjoon mi aiutò a ripulirmi. Strofinò via i rivoli di mascara, il rossetto sbavato. Mi raccontò qualcuna delle barzellette che gli aveva insegnato Jin e mi pettinò i capelli, perché le mie mani tremavano come se fossi appena scampata ad una granata. Mi vergognai profondamente della mia debolezza, di quella totale assenza di professionalità. Ero io a dovermi occupare di loro, non il contrario. E invece avevo permesso che accadesse, che il sogno di una vita si screpolasse, sciupato da quell'inverno inaspettato. Il mio giardino si tingeva di nero, come aveva predetto la nonna. Bambina mia, fai molta attenzione alle cose guaste.

«Va meglio?».

La voce premurosa di Namjoon mi ricondusse alla realtà. I suoi occhi apprensivi, così adulti eppure carezzevoli, gli conferivano un'aura paterna. In un attimo viaggiai indietro nel tempo, a quando pregavo di poterlo incontrare, perché lui mi aveva salvato la vita. Mi ero ripromessa che sarei stata io a fare qualcosa di bello per lui, ma ecco che Namjoon, in cambio di nulla, mi salvava di nuovo.

«Mi dispiace che tu debba vedermi così» biascicai, inerte come una pietra. Lui inspirò, contrariato, concentrandosi sui miei occhi arrossati.

«Immagina se ti vedesse Taehyung, così».

«Cristo, hai ragione».

«Manager, linguaggio» mi canzonò, strappandomi una risata, ma entrambi stavamo pensando a lui, a Taehyung, a come si sarebbe sentito se mi avesse vista in quelle condizioni, fragile e incerta dopo quell'incontro disgraziato. Namjoon inumidì un altro pezzo di cartaigienica e me lo strofinò sulla palpebra macchiata.

«Gli altri stanno arrivando» confessò, fingendo indifferenza.

«Namjoon!» tuonai, lanciando il fazzoletto sporco nel lavandino, «era il vostro giorno libero».

«Fanculo queste stronzate, Bee. Siamo una cazzo di famiglia».

Al mio sguardo omicida, il leader espirò, in cerca di parole più gentili per farmi capire che mi stavo comportando da perfetta stronza egoista.

«Noona, se stai male abbiamo il diritto di sapere perché. Questa collaborazione coinvolge noi, non puoi tagliarci fuori! C'è la nostra carriera, di mezzo».

«Quello che è accaduto tra me e... e il signor Sakurada è personale. Non c'entra niente con il nostro lavoro».

«Quindi è vero, tu lo conosci!».

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