24. Benedetta sii, mia noona

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Dormirono fino all'ora di pranzo.

Persino Namjoon, che di domenica mattina si fiondava sulla bici sfidando la stanchezza e i dolori, per godersi una libertà che spesso gli sembrava così surreale, quasi proibita, era ostaggio del cuscino.

Taehyung era sgusciato fuori dal suo futon per abbarbicarsi a me.

Lo avevo guardato per un tempo indefinito, beandomi di quella sua irreale bellezza, della sua meravigliosa singolarità, del suo splendore; un angelo buono precipitato in pasto ai lupi, e nel silenzio della casa ripensai ai milioni di cuori che ogni volta lo aiutavano a sopravvivere, a venirne fuori tutto intero.

Dormiva su di me, le sue gambe muscolose intrappolavano le mie, il braccio a cingermi la vita, il profilo nascosto nel mio collo. Il corpo di un uomo, i pugni stretti di un bambino. Così sereno, attraversato da un sorriso onirico, l'aureola di folti capelli scuri sparpagliata sul cuscino, le labbra perfette appena schiuse, in un respiro regolare, placido. Sarei rimasta in eterno a proteggerlo, a ripagarlo di ogni singolo sforzo, di tutto l'amore che aveva dato, nella speranza di donargli una quiete che meritava, che gli stava così bene.

Provai a scostarmi delicatamente, ma di scatto lui aprì gli occhi, li puntò nei miei. Lucido, impetuoso. Reclamò una vicinanza più stretta, portandosi sopra di me quel tanto che bastava per farmi sentire, tra le gambe, che era felice di vedermi, ma non si mosse oltre. Tenne lo sguardo affilato fisso nelle mie iridi, trattenendo il fiato. Non battemmo le palpebre, non muovemmo le ciglia, l'uno prigioniero dell'altra.

«Saranghae».

Lo disse sottovoce, forte e deciso. Lo disse in un modo che non lasciava scampo, che non ammetteva repliche e non cercava risposte. Taehyung richiuse gli occhi e allentò la presa come alla fine di un incantesimo, liberandomi. Tornò a dormire lasciandomi sola con quella verità, con quell'amore segreto, disperato, ed io mi domandai come potessi essere tanto felice e tanto triste insieme. Indietreggiai, scottata ed euforica, schiacciando appena la mano di Jungkook che dormiva, steso come una stella marina; lui grugnì, si voltò dall'altra parte.

Pregai che non avesse sentito, che nessuno di loro avesse sentito quelle parole pericolose, micidiali. Pregai che Taehyung se ne dimenticasse, che avessimo solo sognato, che fosse davvero solo sesso, che fossimo due colleghi che per un intercedere divino si erano incontrati, si volevano bene e ogni tanto si scopavano. Avevamo deciso così, le nostre mani strette avevano sugellato quel patto, avevamo promesso.

Mi alzai di corsa e mi lanciai contro il bancone della cucina, atterrando goffamente tra i bicchieri di plastica vuoti. Yoongi sedeva allo sgabello oltre la penisola, la sua figura ferina sormontata dal caschetto di capelli scuri, spettinati. Sorseggiava un caffè americano, bevendo a piccoli sorsi dalla tazza fumante. Sembrava intontito ma cosciente, ed immediatamente compresi che aveva ascoltato. Mi guardò come sempre mi guardava, calmo come il mare al mattino, senza giudizio nè paura negli occhi limpidi. Era fatto così, schietto e pragmatico, esposto a sentimenti che non temeva di gestire, e ancora una volta fui grata al destino di aver forgiato una creatura così preziosa. Non dicemmo nulla. Lui mi versò una tazza di caffé e indicò lo sgabello libero accanto al suo. Sedemmo insieme ed io affrontai il mio riflesso sconvolto nella ceramica. Alla fine, Yoongi parlò.

«L'ultima volta che è successo, abbiamo avuto paura. Sembrava un cane investito che implora di essere abbattuto. Io ho avuto paura».

Avrei potuto fingermi sorpresa, ma non lo feci. Ebbi paura anche io. Yoongi guardava la tendopoli installata al centro del salotto, la montagna di corpi intrecciati che erano i suoi compagni, la sua vita. Accarezzò Taehyung con lo sguardo, illegibile ed enigmatico come sempre, ammirandone il profilo armonioso riverso sul mio futon vuoto, a cingere il mio fantasma fuggito, la mia assenza. Dolce, misterioso Yoongi. Un abisso d'uomo in un corpo schivo, un amore immenso in abbracci ritrosi. Mi feci coraggio, buttai giù il caffè bollente, mi ustionai il palato.

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