21. Mio piccolo mandu

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Immorale. Poco professionale. Pericoloso.

Sospirai, affranta. Nulla di ciò che avrei voluto indossare avrebbe fatto al caso mio. Il letto era invaso da una montagna di vestiti, tutti terribilmente inappropriati. Ma chi volevo prendere in giro, era la mia vita ad essere inappropriata! Andare a cena con Kim Taehyung. Io, uno dei suoi senior manager, una sua fan accanita, farmi portare al ristorante da lui, lasciare che pagasse il conto - no, non l'avrei accettato, avremmo diviso, come fanno gli amici. Gli amici vanno a cena, Bee. E noi siamo amici. Sprofondai di vergogna nel silenzio dell'appartamento, rievocando per l'ennesima volta le circostanze in cui avevo accettato l'invito - di per sè decisamente imbarazzanti. Gli avevo detto di sì tra il bancone della cucina e il divano, come una scolaretta. Al diavolo, acta est fabula recitai allo specchio, e scelsi un blazer nei toni dell'ocra e dei cerchi d'oro per le orecchie, elegante ma appropriato. Niente scollature estreme, niente natiche al vento e niente pushup. Mi domandai cosa avrebbe indossato Taehyung. Sarebbe stato bello da togliere il fiato, bello come la rugiada del mattino, come certe sconfinate distese di grano. Pregai che non si vestisse di grigio, non sarei riuscita a sopravvivergli.

Nell'atrio, incontrai il signor Song.

«Buonasera, signor Song» salutai con nonchalance, sperando di poter scivolare via come una biscia da sotto al portone di vetro temperato. Il portiere mi rivolse un profondo inchino - stava praticamente spazzando il pavimento con i capelli - ed un sorriso cordiale, come di consueto. Alla faccia del portiere, quell'uomo conosceva più segreti di una spia russa.

«Signorina Lee, se mi è concesso dirlo, è raggiante più che mai» azzardò, lusingandomi.

«Non solo le è concesso, ma ci sarei rimasta male se non mi avesse detto nulla. Mi preparo da due ore» scherzai, e il signor Song sorrise.

«Il signor Kim è in giardino» annunciò, professionale come sempre - a differenza della sottoscritta. Trasalì. Non ero pronta a vederlo, Taehyung sarebbe stato di una bellezza brutale - lo era sempre, ma quella sera lo era per me. Rimasi immobile come uno stoccafisso, in cerca di una scusa per tornare di sopra e non uscire mai più, come i paguri.

«Se mi è concesso, signorina Lee, si affretti. Il signor Kim è in trepidante attesa» continuò, probabilmente domandandosi se mi fossi rimbambita.

«E questo da cosa lo deduce?».

«Dal modo in cui guarda la luna» rispose, lievemente trasognato.

Al mio sguardo interrogativo, il signor Song aggiunse «e dal fatto che è qui da quarantasette minuti esatti, immobile. Deve essere un ricevimento importante» concluse, tornando a sedersi con un cenno cordiale.

Il giardino era deserto. Il freddo della sera aveva intorpidito la città, ma nel mio petto ribolliva un sentimento infuocato, qualcosa di misterioso che avrebbe potuto incenerire il mondo intero.

Taehyung era lì. La sua splendida figura si stagliava contro il verde degli alberi. I capelli scuri bagnati dell'argento della luce lunare, le spalle larghe nascoste in un meraviglioso completo grigio fumo. Il suo profumo mi assalì, un odore feroce, ammaliante, vibrava pericoloso nella quiete di Hannam. Al fruscio dei miei passi, lui non si mosse.

«Taehyung?» chiamai, le scarpe che affondavano nel prato soffice. Non si voltò. Teneva lo sguardo fisso sulla luna, proprio come aveva detto il signor Song.

«Aspetti da tanto?» domandai, e ancora lui non si mosse.

«Da quando ti ho vista per la prima volta».

Ammutolì. Come sempre, la sua voce mi mandava su di giri. Aveva davvero la voce più bella che avessi mai sentito. Il mio cuore non sapeva se sentirsi lusingato o infelice al suono di quelle parole profonde, estasiate eppure incrinate da tetre note di rassegnazione. Ritrovai la parola, scherzai.

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