40. Al giardino ancora non l'ho detto

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Taehyung sorrideva nello schermo.

Leggeva una brochure, i piedi scalzi, i capelli disordinati e fieri.

Ancora non sapeva che un giorno l'avrei lasciato.
Non glielo avevo detto.
Sembrava tutto così eterno.

Eravamo a casa mia, o almeno era quello che credevo; in verità, niente di ciò che possediamo ci appartiene. Non sono nostre le stanze, i letti in cui dormiamo, le pantofole in cui c'infiliamo alla sera, quando il giorno muore. Non sono nostre le persone, nemmeno quelle amate; soprattutto quelle amate. Non c'è una cosa in questa vista che possa dirsi nostra; tranne i ricordi. Quelli, con un pizzico di fortuna e tanta tenacia, restano.

«Che ne pensi di Parigi?».

Era un video di tre minuti, centottanta secondi registrati nella penombra di Hannam. Taehyung voleva fare un viaggio. Aveva visto il mondo ma non con me, così diceva di volerlo rifare; che avremmo dovuto avere una foto insieme, noi due stretti sotto la Torre Eiffel, perché gli scatti coi ragazzi erano sconci e chiassosi, con Jin che simulava un'erezione in ferro battuto e Hoseok che starnutiva spaghetti.

«Banalmente romantica».

Al suono della mia stessa voce, trasalì; nemmeno quella mi apparteneva. Era di un'altra, una sconosciuta felice, intrappolata nel tempo come un insetto nell'ambra.

Nel video Taehyung si fingeva indignato, correva contro la telecamera. Rividi il suo corpo asciutto e largo, le magliette oversize in cui gli piaceva galleggiare, finalmente lontano dai riflettori.

«Stai dicendo che sono banale?».

L'inquadratura finì fuori fuoco.

Forse lui aveva raggiunto la sconosciuta, l'aveva afferrata per farle il solletico e lei aveva smesso di prestare attenzione; adesso inquadrava un divano vuoto, ciabatte scalzate in fretta, una busta di snack.

Forse lui la stava baciando; sulla bocca, sul collo, sul palmo della mano libera.

Forse si nascondevano, gelosi di quel momento, di quell'intimità così precisa e pura.

Ascoltai le loro risate, lo strofinio dei corpi, uno schioccare timido e umido, poi ardente, senza mai scovarli. Li cercai oltre lo schermo, provai a scuoterlo per farli cascare, per farli tornare, ma loro rimasero in un posto remoto, un luogo ed un tempo in cui quella donna aveva un volto ed un nome che avrei potuto riconoscere, gli occhi pieni di futuro; forse eravamo davvero noi due, io e Taehyung, ancora insieme.

«Per favore. Addrizza il telefono. Ti prego. Stupida, stupida, addrizza il telefono!».

Imprecai contro me stessa, ma i due innamorati non risposero. Si amarono ai margini di quel ricordo, troppo felici per credere che, un giorno, quel video sarebbe stato così importante, così prezioso; l'ultima cosa rimasta.

Taehyung riapparve a dodici secondi dalla fine, la bocca arrossata da un sentimento che non avrei rivisto, un ricordo che forse si sarebbe sciupato, sbiadito, confuso.

E forse anche quel Taehyung, lui che ancora non sapeva, non esisteva che nella resina. Dopotutto, il giardino che ne sa; si abitua alle cure come al sorgere del sole, ai giorni che passano, alle stagioni. Non pensa mai alla fine, al giardiniere che muore.

«E Parigi sia».

Ma Parigi non fu.

Il clangore mi sorprese, cacciai un grido, non ruppi il telefono per miracolo; qualcosa, nella camera da letto in cui dormivo da mesi, era appena crollato. Afferrai una padella e corsi a vedere, acquattandomi sulla moquette. Mi costrinsi ad escludere gli scenari peggiori, era un quartiere tranquillo, insignificante, sicuro.

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