10. Chiamare aiuto

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Michelito sentiva il cuore battere forte, ma, in quel momento, non sentiva paura.

Ogni briciola di concentrazione era rivolta a scandagliare i dintorni col suo potere, capire a quale distanza si trovassero i loro inseguitori – non era così difficile, era sufficiente individuare dove fossero i telefonini che portavano addosso – e proseguire la sua corsa nell'oscurità. Odore di metallo, polvere, stantio gli permeava le narici, ma era come se non lo sentisse. Sentiva invece il respiro affannato di Teo, che cercava di tenere duro nonostante le ferite.

«Non di qua» Gli bisbigliò l'uomo ad un certo punto, strattonandolo a destra.

Michelito si fidò, lo seguì. Non sapeva se stessero cambiando strada o se Teo stesse correggendo un suo errore di percorso, ma non gli importava, perché sentiva che gli inseguitori erano ormai lontani, probabilmente disorientati da quella caccia al buio.

Appena sbucarono fuori dai sotterranei, Michelito riconobbe con stupore l'attrezzatura della stanza in cui si trovavano e ordinò alla luce di accendersi per confermare i propri sospetti.

Le sue pupille ormai disabituate si contrassero con violenza. Il giovane si schermò gli occhi con un braccio e, quando il fastidio passò, riconobbe l'ambiente familiare del dietro le quinte del Metropolitan.

Era sicuro che Teo gli avesse fatto fare un giro più lungo, ma in quel momento fu davvero grato di essere in un luogo che conosceva... sentiva persino i pensieri farsi più chiari.

Lo spettacolo era ormai finito da un pezzo. Se i suoi capi si erano accorti della sua assenza avrebbe probabilmente perso il posto, ma non aveva comunque intenzione di tornare tanto presto.

"Peccato" Pensò con un po' di disappunto "Era un lavoro da sogno".

Vedere il dietro le quinte libero e silenzioso lo calmava. Immaginò di scostare la grande tenda rossa e sbirciare dal palco, vedere la maestosità del gigantesco teatro vuoto, ma non lo fece.

Non sapeva cosa avrebbe fatto se ci fosse stato ancora qualcuno... probabilmente gli altri lavoratori sarebbero stati tutti troppo spaventati di immischiarsi, forse li avrebbero ignorati di proposito.

Teo lasciò andare il suo braccio e andò a poggiare la fronte contro il muro, chiudendo gli occhi.

Era sudato, e il dolore aggiungeva anni al suo aspetto stanco.

«Beh» Michelito si strinse nelle spalle, lasciando ricadere le braccia «Una situazione ch'è un tot da caos. Quanto credi che ci metteranno a toglierci dalla lista dei cattivi, zio?».

Teo non rispose, picchiettando debolmente contro la parete un ritmo lento.

«Teo?» Il ragazzo si avvicinò e gli poggiò una mano sulla spalla, allarmato. Lo sentiva tremare leggermente sotto il suo tocco, come se avesse avuto freddo.

«Credo di avere bisogni di zuccheri» Gracidò l'operaio.

Il dolore, la corsa e il digiuno combinati stavano pretendendo un tributo dal suo collega, ma Michelito non aveva niente da mangiare con sé.

«Ti chiamo un'ambulanza, Teo»

«Niente ambulanza» grugnì l'altro, cercando di non sbadigliare

«Ma...»

«Non posso, Michelino. Mi troverebbero».

Il giovane si chiese se obbedire, ma qualcosa nell'espressione di Teo gli disse che non era la prima volta che parlava un po' troppo. Chissà quante volte si era messo nei guai. Se era quanto sospettava, lo avrebbero sicuramente ucciso se lo avesse lasciato in ospedale.

«Zio, sei una mina vagante. Finirai per farti terminare davvero così» Gli disse, con simpatia

«Da oggi, ufficialmente, il simulacro ha ucciso il povero Teo» proseguì Teo, inspirando dal naso «Tempo di cambiare nome un'altra volta, non c'è problema>

«Non ti chiami Teo?»

«Ora non più. Ora mi chiamo... che ne dici del Folle Fernando?»

«Zio, sei fuori di testa»

«Secondo te perché mi faccio chiamare il Folle T... cioè, il Folle Fernando?»

«Chiudi la bocca ora» intimò Michelito, ma in tono dolce «Devi solo riposare».

Sì, Teo era sicuramente una mina vagante decisa a mettersi nei guai.

Michelito estrasse il telefono di tasca, ormai quasi del tutto scarico.

Avrebbe potuto lasciare Teo a sé stesso, ma a questo punto, dopo tutta la fatica che aveva fatto per tenerlo in vita, non poteva ignorare quello che ormai iniziava a considerare un amico in difficoltà.

Compose un numero e rimase in attesa per un paio di secondi, pregando tra sé e sé.

«Gin? Senti, devo chiederti un favore. È una cosa tutta matta, ma non so che altro fare. Nel caso tu accettassi, chiedi ad Ale di sprintare qui col camion? E portare qualche caramella, grazie?».

Una voce profonda, cupa, rispose dal telefonino.

«Certo. Sei al Metropolitan?».

Michelito annuì, anche se il suo interlocutore non poteva vederlo.

«Grazie amico. Grazie, sì, sono al Metropolitan. Ci sentiamo».

La chiamata si interruppe. Michelito si infilò il telefono in tasca e si voltò verso Teo per rassicurarlo, ma si accorse che l'operaio era scivolato fino a terra e ora se ne stava seduto a boccheggiare, con la schiena contro il muro, e lo sguardo vitreo rivolto al soffitto.

«Oh no, amico, no no no, non lasciarmi...» Lo supplicò Michelito, abbassandosi e stringendolo fra le braccia «... I rinforzi stanno arrivando. Andrà tutto bene. Tutto bene, capito? Andiamo! Andiamo, stringimi la mano se hai capito!».

Gli spinse il palmo contro le dita aperte e sudatissime, viscide. Teo deglutì e gli strinse la mano.

«H-ho c-capito» Rispose, con voce flebile, da bambino.

Michelito si sentì stringere il cuore e si guardò alle spalle: se qualcuno li avesse raggiunti in quel momento, lui sarebbe stato costretto a scappare e lasciare lì quell'uomo, in balia di coloro i quali l'avrebbero sicuramente ucciso. Erano stati loro a ridurlo così... era bastato un colpo solo. Uno.

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