26. L'ultima freccia?

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Michelito si guardò intorno, respirando l'umidità che sapeva di incenso, menta e marijuana, e vide il pappagallino posarsi in alto, su una cassa alta più di due metri. Si abbassò verso Ale, parlandole a voce alta nell'orecchio.

«Dobbiamo trovare un posto dove ci si sente quando diciamo qualcosa!» Esclamò.

Ale annuì e si fece spazio fra un gruppo di ragazze con creste punk che saltavano con i pugni alzati, avanzando impietosamente. Sgusciarono dietro un palchetto che i tecnici stavano ancora allestendo e si infilarono in una piccola galleria laterale che sembrava essere stata parzialmente insonorizzata grazie a dei pannelli di materiale spugnoso.

Il nuovo ambiente era illuminato solo da neon gialli, lunghe strisce che correvano lungo le pareti, e conteneva divanetti scassati, sedie di plastica e cassette impilate a creare strani sedili rinforzati con il nastro da elettricista. Sui divanetti sedevano persone diversissime tra loro, di ogni colore e forma, vestiti nei modi più disparati. Una ragazza con un uncino al posto della mano destra, vestita con giacca e cravatta, li salutò.

Michelito le sorrise, ricambiando il saluto con un cenno della mano, quando Ale si mise davanti a lui, per proteggerlo, sospettosa.

«Michelino! Michelino!» Gridò una voce familiare.

Michelito si mise in punta di piedi e scrutò oltre le teste delle persone sedute ai lati della galleria, finché non lo vide: «Fernando!».

Il folle se ne stava seduto su una grande poltrona mezza ammuffita decorato a fantasie floreali, il tipico pezzo di salotto di una vecchia zia del sud, ma la cosa interessante era che aveva le spalle e la testa ricoperti da pappagallini ciarlanti. Anche la calopsitta che Michelito e Ale avevano seguito fino a quel momento si era appena posata su di lui, emettendo un basso fischio.

I due ragazzi appena arrivati camminarono fino a raggiungere l'uomo e i suoi animali.

«Fernando!» Esclamò Michelito, sorridendo «Hai visto, alla fine siamo venuti!»

«Sapevo che il desiderio di vedere il mio calocoro avrebbe vinto tutti i tuoi dubbi e ti avrebbe chiamato fin qui» rispose fiero Fernando «E, oh, c'è anche Ale!».

La ragazza rise, allungando una mano per toccare uno dei pappagallini.

«Non siamo qui per loro» Disse «Però sono carini!»

«E allora che siete venuti a fare?» replicò Teo, sbarrando gli occhi «Hmm?».

Ale non disse niente. Michelito scosse la testa, allargando le braccia.

«Quindi è questo il tuo famigerato calocoro?» Domandò, divertito «È un... coro... di calopsitte?»
«Sì, certo. Che cosa avrebbe potuto essere?»

«No. Certo, no, nient'altro» Michelito sorrise, volgendo lo sguardo sul volto di Ale, che sembrava pallidissima nella luce gialla «Nient'altro».

E poi, con la coda dell'occhio, lo vide: un altro Cactus di Fuoco, dipinto con mano un po' incerta sulla parete, a nemmeno un metro di distanza da lui.

«Cosa dobbiamo fare?» Domandò Ale «Perché siamo qui? Ho caldo. C'è un sacco di gente...».

Michelito le prese una mano: sapeva che Ale non si sentiva a suo agio in mezzo a troppe persone, soprattutto se erano tutte estranee... ma come poteva aiutarla? Ovviamente un teknival era pieno di gente, di strambi che stavano appiccicati gli uni sugli altri, di musica ad alto volume.

«Siamo qui per capire» Le disse Michelito «Ricordi? Hai voluto venire qui con me. Respira. Respira lentamente, per favore...».

Ale obbedì e iniziò a inspirare piano piano, tre secondi per mettere l'aria dentro i polmoni, tre secondi per espellerla. Michelito le teneva la mano, cercando di capire chi avrebbe potuto aiutarli, a chi doveva parlare per capire qualcosa di più riguardo a Toy Boy, al messaggio e al piano segreti. Chi doveva approcciare, il ragazzo nero con i guanti bianchi oppure la tipa con i capelli rosa lunghi fino alla vita? Il pelato con i vestiti ricoperti di borchie e spine? Il vecchietto con i capelli argentati legati in una coda? La donna senza occhi che picchiettava con le dita i due bonghi che teneva in grembo? La bambina con i serpenti, il bimbo con la pistola finta in mano?

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