9. Tecno-sciamano

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Michelito appoggiò la guancia su un palmo della mano, guardando Teo aprire lo scatolone con un vecchio cacciavite. La punta era smussata, così l'operaio lo stava adoperando a mo' di pugnale invece che come un cutter.

C'era un che di confortante nell'avere con sé la lucina del telefono, nello stare in quella stanza buia e ben protetta con un compagno di sventure.

«L'avevi in tasca per tutto questo tempo?» Chiese il più giovane «Il cacciavite?»

«Sì. Era vecchio e volevano buttarlo, quindi avevo deciso di portarlo a casa con me»

«Lo sai che questo è un altro modo sicuro per mettersi nei guai, vero?»
«Prendermi un cacciavite?»

«Curiosare qui dentro»

«Allora perché non mi stai fermando?».

Michelito abbozzò un sorriso.

Non lo stava fermando perché aveva visto sul lato dello scatolone una fetta d'anguria stilizzata e le lettere W e I in bianco. Perché dopo essere stato inseguito da un simulacro aveva tutta l'intenzione di mantenere un basso profilo per un po' e non tornare presto a lavorare al Metropolitan comunque e perché sperava che quella documentazione avesse a che fare con il progetto di Toy Boy. Non lo stava fermando, perché Michele Philippus voleva sapere con quale diritto quelli della Watermelon Inc. se ne andassero in giro a creare robot che usavano la voce di suo padre Hawk Storm.

Pensò che un modo semplice di riassumere il tutto fosse:

«Tanto il danno è fatto, zio».

Teo annuì e aprì le falde dello scatolone. All'interno vi era una gran quantità di carpette e cartelle, alcuni dischi custoditi con cura, e quello che sembrava essere un macchinario scuro, grosso come una stampante industriale, spento e avvolto nel cellophane.

L'operaio acciuffò uno dei plichi e ne scivolò fuori un foglio A4 coperto di simboli incomprensibili.

«È cifrato» Disse asciutto, ma Michelito poteva vedere la curiosità brillare nei suoi occhi.

«Che bisogno c'è?» Chiese il giovane «Insomma, è un foglio nascosto dentro uno scatolone dentro una stanza con serratura biometrica in un sotterraneo. Perché hanno messo qui i loro panni sporchi se ci tenevano tanto che rimanesse segreto?»

«È la loro lavanderia» spiegò Teo «Questo genere di panni sporchi non li tieni in casa»
«Potevano almeno non mettere il logo dappertutto, i gran geni»

Teo batté le palpebre e diede ragione a Michelito.

I due aprirono il plico, estrassero ciascuno una piccola quantità di fogli graffettati e li analizzarono. Quasi tutto era cifrato, incomprensibile, scritto in una sorta di alfabeto runico, e quello che non era cifrato era in ideogrammi giapponesi. C'erano anche alcuni piccoli diagrammi, un'accozzaglia di punti e linee, ma Michelito non riuscì a capire di cosa si trattasse.

«Sei fortunato, zio?» Domandò il giovane «Trovi niente?»

«Questo è il simbolo del drago rosso nel mahjong» commentò Teo, indicando un disegnino che sembrava vagamente un pugnale che attraversava una scatola «Ma non credo che ci serva, no?»
«Il drago rosso, zio? Forse sì... se non sbaglio una decina di anni fa la Darkes, l'azienda leader nel settore per la produzione dei laptop, faceva distribuire i suoi prodotti in America dalla Red Dragon, che credo avesse come simbolo proprio la tessera dei mahjong»
«Ah. Certo che sei un tipetto proprio acculturato!»

«Ehm, ho comprato dalla Darkes proprio il mio primo portatile, aveva sulla scatola quel simbolo. E poi mi interessa la storia delle aziende tecnologiche... la Red Dragon, comunque, ha cambiato nome quasi subito, dopo neanche due anni di esistenza» ragionò il giovane, in un sussurro «Quindi se davvero questi fogli hanno qualcosa a che fare con la Red Dragon (ma potrebbe anche essere che quel simbolo si riferisca a qualcos'altro, tipo ad un loro prodotto specifico), questi diagrammi risalgono a non più di dieci anni fa»

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