Station to Station

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It's not the side effects of the cocaine
I'm thinking that it must be love

*

Savino attese la risposta di Rebecca in mezzo a quella che, da bambini, avevano sempre chiamato l'Arena.

Quel nome altisonante descriveva un piccolo spiazzo quadrato, delimitato da basse aiuole su ogni lato e dominato da una decina d'alberi robusti, piantati intorno al perimetro interno come le colonne di un tempio. La maggior parte dell'erba era stata ripulita dagli innumerevoli piedi che avevano transitato per la piazzetta nel corso degli anni: restavano solo terra, sassi, sterpi ed erbacce particolarmente tenaci.

Quattro panchine, una per lato, guardavano verso il centro dell'Arena: su una di queste si era seduto Savino per mandare il messaggio a Rebecca. Poi, si era innervosito troppo per star fermo e si era messo a camminare avanti e indietro, guardando il telefono ogni due secondi.

Visualizza ma non risponde, pensò, occhieggiando le spunte azzurre. C'era da aspettarselo. Nella migliore delle ipotesi, mi manda un messaggio domani per dirmi di lasciarla in pace e poi mi blocca.

Eppure, non se la sentiva di darsi per vinto e tornare a casa. Forse c'era ancora un filo di speranza al quale aggrapparsi, una possibilità di sistemare le cose. Magari Rebecca era indecisa su come rispondere. Decise che avrebbe aspettato.

Diede un calcio a un sasso e lo fece volare dentro un'aiuola: le foglie smosse produssero un breve fruscio indispettito.

Aveva chiesto a Rebecca di vedersi all'Arena, invece che alla solita panchina, perché era un posto appartato, distante dalle palazzine dove abitavano; e poi, custodiva dei bei ricordi per entrambi. Quante volte, da bambini, le sue ginocchia e quelle di Rebecca avevano fatto la conoscenza di quei sassi spigolosi! L'Arena, del resto, era il luogo deputato alle sfide più accanite, agli scontri finali, ai combattimenti all'ultimo sangue. Che si trattasse di supereroi contro gladiatori cyborg, Jedi contro Sith o robottoni giganti contro smisurati kaiju, lo spiazzo terroso si prestava benissimo a diventare un campo di battaglia, con i suoi epici alberi-colonne e le sue panchine-spalti per spettatori assetati di botte e massacro.

Certo, le persone che abitavano negli appartamenti che si affacciavano sull'Arena avevano altre idee al riguardo e non si facevano scrupolo a comunicarlo a suon di urla e di chiamo le vostre mamme e vi faccio portare a casa per un orecchio. Che guastafeste.

Era stato durante uno di quei combattimenti che lui e Becca — otto o forse nove anni, all'epoca — avevano avuto il peggiore dei loro rari litigi: era un pomeriggio d'estate e avevano deciso, su proposta di Savino, di decidere l'esito di uno scontro a colpi di bastone. Un'idea piuttosto stupida, col senno di poi. Avevano passato qualche minuto facendo cozzare le loro armi improvvisate l'una contro l'altra, rossi in faccia e grondanti sudore, finché Rebecca non si era spazientita e gli aveva mollato un colpo secco e dolorosissimo sulle nocche di una mano. Savino aveva perso la presa sul bastone e la sua vicina si era proclamata vincitrice.

Ignorando le sue vivaci rimostranze, Rebecca gli aveva dato le spalle per raccogliere le acclamazioni del pubblico e Savino, umiliato dalla sconfitta e con le dita che si gonfiavano a vista d'occhio, ne aveva approfittato per tirarle la coda di cavallo. L'altra aveva cacciato uno strillo di dolore, ma si era ripresa quasi subito e gli aveva rifilato un paio di schiaffi.

Erano tornati a casa frignando e giurandosi odio eterno. L'odio era poi durato fino alla mattina del giorno seguente: Rebecca aveva comprato due ghiaccioli e gliene aveva offerto uno. Li avevano mangiati appollaiati su un muretto, cercando di leccare il ghiaccio prima che il sole lo facesse sgocciolare tutto lungo il bastoncino, e avevano fatto la pace, scusandosi per le rispettive mosse sleali.

Una playlist per la fine del mondoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora