Me, I'm out of breath, but not quite doubting
I've found a door which lets me out*
I genitori di Rebecca non l'avevano presa bene.
Il che, più o meno, equivaleva a dire che la pandemia era stata un leggero inconveniente.
Rebecca sospirò, cambiò posizione sulla sedia e si chiese quanto tempo ci sarebbe voluto prima che i suoi ritenessero di averla rimproverata abbastanza. Era già un'ora che sbraitavano e tuonavano e interrogavano e scuotevano la testa e mettevano le mani nei capelli ed elencavano castighi tremendi, come il Padreterno davanti alla soglia sbarrata dell'Eden — e ancora non sembrava che la tortura si avvicinasse alla fine.
Leo stava in piedi contro il muro, in pigiama e con gli occhi arrossati dal sonno, e sorseggiava a disagio il secondo caffè della mattina.
Ma cosa volete che vi risponda? pensò Rebecca, iniziando a covare una tacita insofferenza. In quanti modi diversi posso dirvi che mi dispiace?
Le dispiaceva, sì, e le dispiaceva davvero. Si sentiva esausta, avvilita e tremendamente in colpa. Aveva tollerato quella sfuriata senza fiatare, perché sapeva benissimo di essere dalla parte del torto, di non poter portare alcuna giustificazione per le sue azioni. Era stata per un'ora uno scoglio percosso dalle onde del mare. Adesso voleva solo mettersi a letto.
Ma i suoi non avevano finito.
"Che cosa ti dice la testa?"
"Ti rendi conto di cosa poteva succedere?"
"Come possiamo fidarci di te, adesso?"
"Una multa di quattrocento euro!"
"Completamente irresponsabile."
Rebecca tirò indietro i capelli — erano sporchi, prima di dormire aveva bisogno di una doccia — e sospirò di nuovo, più forte, per liberarsi del peso che le chiudeva il petto. I suoi occhi indugiarono sulla finestra, dalla quale vedeva sorgere un nuovo giorno d'aprile, luminoso di sole, colorato di fiori e del tutto indifferente ai suoi problemi.
"C'è poco da sospirare, Rebecca!" sbottò la mamma, che sembrava preda di un vortice incontrollabile di emozioni: una giostra che la sballottava dalla furia allo sconforto al sollievo allo sdegno all'incredulità.
E poi dicevano che erano gli adolescenti a non sapere mai come sentirsi!
Rebecca alzò le mani. "Non stavo..." iniziò, ma si interruppe e lasciò ricadere i palmi sul tavolo. Inutile mettersi a spiegare che la sua era stata un'espressione di stanchezza, non di irritazione. Se l'avesse fatto, probabilmente avrebbe iniziato a sentirsi molto irritata, vanificando così i suoi sforzi.
Ci fu qualche attimo di silenzio burrascoso.
"Io ancora non riesco a crederci," ripeté suo padre per quella che doveva essere la venticinquesima volta, in piedi davanti alla tv spenta, rigido, con la faccia di pietra: un monumento alla costernazione. "Non ti è passato per il cervello di chiederti cosa potevamo pensare noi, se ci fossimo accorti che eri sparita? Senza sapere dov'eri e cosa stavi facendo? Non ti sei preoccupata del virus? Della quarantena?"
Mi sono preoccupata di tutte queste cose, pensò Rebecca, gli occhi puntati sul tavolo e le dita delle mani che si intrecciavano e districavano senza posa. Ma ho deciso che ne valeva la pena ugualmente.
"Non volevo farvi preoccupare, davvero," rispose, con una voce piccola piccola. "Mi dispiace per tutto. Per quello che vale..." esitò, poi si decise, "volevo solo vedere com'era la città in lockdown."
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Una playlist per la fine del mondo
Teen FictionRebecca e Savino hanno la stessa età, sono vicini di casa ed erano amici da bambini, prima di allontanarsi, come spesso capita. In un giorno come un altro, il Coronavirus arriva inaspettato a sconvolgere le vite di tutti: l'Italia è in lockdown, i c...