Lady Stardust

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And he was awful nice
Really quite paradise
And he sang all night, all night long

*

Rebecca appoggiò le mani alla staccionata di legno che delimitava la terrazza panoramica, abbracciò Roma con lo sguardo e si abbandonò al senso di irrealtà che la accompagnava da quando aveva messo piede fuori dalle mura di Villa Riccio.

Fin dove l'orizzonte scompariva, brillavano le luci della città, distanti e silenziose come le stelle in un cielo alla rovescia. Minuscoli condomini, riparati da minuscoli tetti, erano gremiti di minuscole finestre e circondati da minuscole strade illuminate da minuscoli lampioni. Ma non c'era più nessun minuscolo abitante in quella metropoli, immaginò Rebecca. Lei e Savino erano rimasti soli al mondo.

Proiettando lontano la sua immaginazione, vide mille altre città vuote dormire oltre i confini di Roma: vuoti gli Champs-Élysées sotto l'Arco di Trionfo, vuote le rive del Tamigi sorvegliate dal Big Ben e dal London Eye, vuote le birrerie tedesche e i coffee shop di Amsterdam, vuoti i grattacieli cinesi e quelli americani, identici monumenti di cristallo innalzati al nulla. Erano vuote le strade incise sulla superficie della Terra, vuoti i treni, le stazioni e le ferrovie, vuoti i parcheggi degli autobus e delle corriere, vuoti gli aeroporti e vuoti gli aerei dimenticati sulle piste d'atterraggio.

Contemplare quella visione era come strappare via il fondale di un teatro e scoprire il muro spoglio celato dietro le scenografie. Per un attimo — un attimo lungo e vertiginoso — Rebecca fu sicura che quello fosse il mondo reale, lo fosse sempre stato, e la sua vita di prima soltanto un sogno.

Si riscosse con un sussulto e voltò la testa verso Savino, che stava appoggiato allo steccato a un paio di metri di distanza da lei, illuminato solo da un lampioncino pallido e distante. Lui si accorse di essere guardato e sollevò le labbra in quel suo sorriso dolce e paraculo insieme. Rebecca pensò che era il sorriso di chi ha scoperto una cosa bella sul tuo conto che nemmeno tu conoscevi, e ha intenzione di farsi pregare un po' prima di rivelartela.

"Ti fa ancora male?"

Savino aveva la schiena tesa e tutto il peso del corpo spostato sulla gamba sinistra. Tuttavia, si limitò a fare spallucce, ostentando noncuranza in un tipico (e inutile) sfoggio virile di sprezzo verso il dolore fisico.

La distanza che li separava le sembrò, all'improvviso, troppo grande.

"Sav," lo chiamò, a bassa voce, "vieni più vicino, per favore?"

L'altro si mosse subito, poi si bloccò. "Non ho la mascherina."

"Non fa niente. Non ce l'ho nemmeno io."

Savino venne da lei e appoggiò gli avambracci alla staccionata. Il suo gomito toccò quello di Rebecca. La cupola luminescente di San Pietro era dritta davanti a loro, una rotonda goccia dorata che puntava al cielo.

Rebecca sospirò. "Sono stanca di pensare sempre al virus," confessò, guardando lontano. "E sono stanca di misurare le distanze al centimetro e di preoccuparmi per ogni minimo gesto." Stanca di non poterti abbracciare, stanca di non poter semplicemente rompere gli indugi e darti un bacio, aggiunse dentro di sé.

"Secondo me, se dovevamo contagiarci a vicenda l'avevamo già fatto a Villa Riccio," affermò Savino, nel tono di chi per metà è convinto di ciò che dice e per metà sta cercando di convincersi.

"Forse. Comunque sia, proviamo a far finta che non ci sia niente da temere, stasera?"

"Proviamo."

Restarono in silenzio a guardare la città che luccicava ai loro piedi, come divinità curiose dalla cima dell'Olimpo. Dopo qualche momento, Savino spostò la mano in un gesto apparentemente casuale e le loro nocche si sfiorarono.

Una playlist per la fine del mondoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora