Estratto n. 3

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09 ottobre 2015


La prima settimana a Yale passò velocemente tra lezioni e allenamenti.

Quanto a Karter, non l'avevo ancora sentito dopo quella sera e nemmeno ero intenzionata a farlo. In quei giorni mi assalì la terribile convinzione che non sarebbe mai andata in porto una relazione del genere. Era troppo difficile sotto diversi punti di vista e per quanto potesse farmi male, sapevo che era la cosa migliore... non per me, ma per la situazione del cavolo in cui mi ritrovavo.

Lo so.

So che poco fa ho asserito di essere attratta dalle cose complicate, ma in quel momento mi convinsi che fosse solo una scusa per tenere a distanza qualsiasi altro ragazzo, proprio come si era raccomandato lui.

Che senso aveva restare aggrappata a una fantasia, a una storia senza capo né coda che poteva trasformarsi solo in un lungo rimpianto? Anche lui non mi scriveva da allora. Forse anche lui stava facendo gli stessi ragionamenti. Insomma, mi stava lasciando andare libera di vivere una vita che non poteva o non voleva condividere con me.

Inutile dire che Hanna e Katy avevano notato che ci fosse qualcosa che non andava. Non partecipavo attivamente alle conversazioni e sobbalzavo a ogni notifica che appariva sullo schermo. La domanda era sempre la stessa: «Si è più fatto vivo?»

Quella volta fu Katy a porla. Anche se cambiava l'interlocutore, la risposta era la stessa. Solo che quella volta emisi dei suoni gutturali con la bocca piena di una bistecca un po' troppo salata per i miei gusti.

«Avresti dovuto mandare la foto. Quella che ti avevo scattato di spalle non era affatto male» suggerì Hanna con il suo tono da saccente femme fatale, scatenando in me una certa frustrazione.

«E perché, di grazia? Per dirgli: mi manchi, ho una cotta per te e vorrei mi allenassi in orizzontale?»

Tra il rumore dei vassoi, delle posate e il vociare non mi accorsi che Jacob era proprio dietro di me.

Ah, qualora ve lo domandaste: no, non avevo detto a nessuno di me e Karter.

«ELEONORA MARSHALL». Riconobbi subito la sua voce e mi irrigidii quando mi esortò a ripetere con un secco «cosa cazzo hai detto?»

Non avevo idea di quanto avesse sentito, ma fu comunque troppo a giudicare dal tono imperativo. Jay lo aveva ereditato da papà.

Iniziò a non piacermi l'idea di avere mio fratello sempre intorno. Con lui che controllava ogni mia mossa mi sarei potuta scordare le sbronze epocali, le fughe notturne e altre stronzate che ero solita fare a Princeton.

Mi lamentai con un linguaggio fin troppo colorito per la sua improvvisa apparizione alle mie spalle e lui ricambiò dando libero sfogo al suo estro. «Devo noleggiare un araldo che suoni la tromba per annunciarmi?»

«Una semplice scorreggia andrebbe bene» lo schernì Katy.

Scoppiammo a ridere, tranne lui. Oh, lui si incazzò, ci fulminò con lo sguardo e strinse i pugni al punto che le nocche sbiancarono.

Era furioso e pensai che Katy non l'avrebbe passata liscia per quella battuta del cazzo, ma a Jacob sembrava importare solo di me e di ciò che aveva sentito.

Hanna, che si accorse di quello sguardo furibondo, tentò di smorzare con un innocente «stavamo scherzando», ma ancora una volta Jacob sembrava essersi dimenticato del mondo circostante, a parte me. Ricordo che mi parve di sentire i suoi occhi infilzati nei miei come fossero ferri da lana.

Gelo.

Per usare il gergo di papà, credo che Jacob stesse esaminando mentalmente le poche prove indiziarie in suo possesso per decidere se fossi colpevole di mancata verginità e chi fosse il malvivente.

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