Estratto n. 19

187 12 7
                                    

15 gennaio 2016

«Quindi?» domandai retorica incitandolo ad alzarsi e seguirmi dopo avergli spiegato brevemente il piano. «Ci stai?»

Il piano era semplice: entrare in cantina, trovare qualsiasi cosa ci fosse che sembrasse fuori posto, portare la prova alla polizia e farla finita.

Semplice, almeno sulla carta.

«Tuo padre ci ucciderà. Lo sai, vero?» domandò Doukas strofinandosi la mano tatuata sul mento.

Sbarrai gli occhi chiedendogli se davvero mio padre gli facesse più paura di me. Dopotutto aveva assaggiato la rabbia che potevo covare e sono sicura che sia stato un grosso boccone amaro per lui. Ne sono sicura perché lo fu anche per me.

Vedendo che non mi rispondeva mi stizzii, ma non potei biasimarlo. Sapevamo entrambi quanto mio padre tenesse al suo "pensatoio", così chiamava la cantina. Non aveva permesso più a nessuno di entrarci dopo quello stupido round a nascondino. Era stato chiaro e lapidario nel dirci che non ci avremmo più dovuto mettere piede.

Poteva entrarci lui e nessun altro.

Solo oggi comprendo la sua durezza.

In quella cantina era nascosto un segreto in grado di mettere in ginocchio la sua famiglia. Non l'unico, certo; era uno dei tanti, ma forse il più sconcertante. A essere tale non era solo la natura di quel segreto, ma anche e soprattutto il fatto che fosse tale. Un segreto, nascosto con le migliori intenzioni e che portò e avrebbe portato alla morte...

Oh, papà! Questo sarà il tuo più grande rimorso.

«Fanculo» borbottai uscendo. Mi bastò smuovere i capelli affinché Doukas mi seguisse. Il mio solito atteggiamento da stronzetta viziata mi rendeva appetibile ai suoi occhi, lo sapevo bene.

Così, scendemmo le scale di legno a due a due e per poco non scivolai facendo gli ultimi gradini col sedere proprio sotto i suoi occhi. Doukas scoppiò in una risata incontenibile fino a che mi voltai, fulminandolo con lo sguardo.

Alzò le mani, dichiarandosi innocente e io mi ripetei mentalmente il piano.

Entrare in cantina, trovare qualsiasi cosa ci fosse che sembrasse fuori posto, portare la prova alla polizia e farla finita.

Semplice e lineare. Senza intoppi né imprevisti.

Non poteva andare diversamente.

Non doveva andare diversamente.

Camminai a passo spedito verso quello che era stato il nascondiglio perfetto ma nulla. Non c'era niente. Tra le botti non c'era altro che un cumulo di polvere smossa irregolarmente.

«Cazzo, cazzo, cazzo!» e presi a girare in tondo con la mano sulla fronte nel tentativo di rallentare i pensieri e le parolacce. Il tutto sotto gli occhi sgranati di Doukas. Poi mi accorsi di due particolari difficili da trascurare, ma ai quali non feci subito caso.

Avevamo trovato la luce della cantina accesa, nonostante nessuno fosse sceso, nemmeno per fare le pulizie. Inoltre, una zona rettangolare della grandezza di un foglio mostrava uno strato di polvere più sottile e recente rispetto al resto del pavimento.

«Cercavi questo?».

Il mio piano aveva appena iniziato a fare acqua da tutte le parti. Rabbrividii al sentire la sua voce. Sventolava un faldoncino azzurro dell'Austin State Hospital, un ospedale psichiatrico. Lo guardai attonita cercando di capire cosa diamine significasse.

Sotto il logo c'erano le iniziali del paziente 0107. J. M.

Jacob Marshall.

«Jay» espirai faticando a immettere nuovamente aria nei polmoni. Era tornato senza aver aspettato la mia chiamata, come invece mi ero raccomandata.

NANA.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora