Estratto n. 1

714 42 37
                                    


02 Ottobre 2015


«Controlla il respiro, Nora, pensa solo alla meccanica delle gambe, posiziona il blocco come a Dover, scatta di destro e li conquisterai».

«So esattamente quello che devo o non devo fare, Karter».

Stupido imbecille di un allenatore sexy.

Prima di una gara è sempre così: lui cerca di calmarmi, di farmi razionalizzare pensando alla tecnica, e io sfogo tutta la mia emotività su chi mi sta attorno, cioè lui. Karter Johnson, il mio allenatore, l'unico uomo che mi fosse concesso frequentare fino a che non fossi entrata ufficialmente in squadra.

Ventisette anni, occhi verdi, promessa mancata del football e ora allenatore di atletica a Princeton. Avevo una leggera cotta per lui più o meno da quando ci incontrammo per caso in un bar, circa due anni fa. Saltammo subito alla terza base, ignari del fatto che di lì a poche ore avremmo instaurato un rapporto, per così dire, professionale. Infatti, dopo la vittoria del pomeriggio successivo a Newport, divenne il mio allenatore privato e l'ammissione a Princeton fu in buona parte grazie a lui.

«Potremmo fare grandi cose insieme» aveva detto, e io non avevo certo pensato alla corsa.

Ora le grandi cose avrei dovuto dimostrarle lì, su quel circuito, in quel momento.

Per me e per lui, o avrei finito col deludere entrambi.

Era stato lui a convincere il coach Taimes di Yale a incontrarmi. Si presentarono insieme, quando il rapporto del talent scout gli diede la spinta decisiva confermando le parole di Karter.

«È un'atleta ben oltre gli standard del vostro campus» disse Karter presentandoci, e io ne fui imbarazzata e lusingata allo stesso tempo, al punto da sentire un'ondata di commozione che ricacciai sbattendo le palpebre ed evitando di guardarlo negli occhi.

Quelle parole valevano il doppio dette da lui, ma tenni per me un sorriso compiaciuto.

«Princeton è solo un trampolino di lancio, Nora, Yale ti porterà ovunque vorrai» diceva sempre, e io mi lasciavo convincere dal suo sguardo languido e deciso.

Oh, se avessi saputo quanto ci sarebbe costato. Avrei opposto tutta la resistenza di cui ero capace.

Mi diede il suo scaramantico bacio sulla fronte e presi posizione. Mentre regolavo il blocco di partenza, nella testa iniziai a cantare gli Offspring per caricarmi e trovare il ritmo. Le altre ragazze scomparvero attorno a me, c'ero solo io, la pista e la musica.

In cento metri mi sarei giocata l'ammissione a Yale, dipendeva tutto dalle mie gambe e da quanto veloci potessero muoversi.

Il coach Taimes si mise a parlottare con Karter. Guardandolo bene, ebbi voglia di fallire: un uomo di mezza età con la pancia e i peli brizzolati che uscivano dalla polo blu sudata.

Non c'era paragone. Non aveva nulla a che vedere con Karter.

«Ready». La voce baritonale del talent scout riecheggiò nello stadio e sentii il bisogno di guardarlo e vedere nei suoi occhi che tutto sarebbe andato come doveva.

Così fu.

Lui sorrise, annuì per dirmi che ce l'avrei fatta.

You're gonna go far, kid. Tum. Tum. Tum.


Mentre il ritornello della canzone tamburellava nella mia testa, un lampo di follia si impossessò di me e scalciai via il blocco. Sarei scattata senza nessun sostegno, fidandomi solo di me stessa. Non mi voltai verso Karter, sapevo che non avrebbe approvato conoscendo i problemi al ginocchio. Tuttavia, come avrete modo di capire, a me le cose facili non sono mai piaciute.

NANA.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora