Prologo

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Le maniche del vestito mi pizzicavano sui polsi, mi sentivo terribilmente infastidita, dal vestito o forse dalla situazione in cui mi trovavo. Tirai un lungo respiro, sistemai il vestito e mi guardai allo specchio. Le occhiaie erano evidenti, erano lì a ricordarmi che non dormivo da giorni. Il mio colorito pallido, i capelli spettinati raccolti da un elastico, tutto in me urlava disperazione.
Tutti mi avevano detto che quello sarebbe stato il giorno più brutto, ma che poi le cose sarebbero andate meglio, che il tempo cura ogni ferita. Ma io lo sapevo, sapevo che il mio giorno più brutto l’avevo già visto, e che da lì in poi le cose sarebbero solo peggiorate. Non esisteva tempo abbastanza lungo in grado di guarire la voragine che avevo sul cuore. Niente e nessuno avrebbe mai potuto capire quel mio dolore, e mai niente, o tanto meno qualcuno, avrebbe potuto guarire le mie ferite.
Dopo aver osservato a lungo le mie condizioni allo specchio, mi promisi che non avrei pianto, almeno non lì. Cercai dentro me stessa tutta la forza di volontà possibile, cercai il coraggio e tentai di sopprimere il dolore. Mi resi conto che era tutto più grande di me, che avevo paura. Brividi di freddo mi percorrevano la schiena ed i miei occhi mi imploravano di lasciar scendere qualche lacrima, invano.
Alla fine bussarono alla porta, era nonna Anna.
< Tesoro sei pronta? Sarebbe ora di scendere>.
< Si, scendo subito.>
Le risposi cercando di mascherare il più possibile la mia disperazione, sapevo che faceva lo stesso anche lei. Volevo essere forte, anzi no, dovevo esserlo.
Un attimo dopo mi ritrovai a guardare i gradini delle scale mentre li percorrevo, a testa bassa, illudendomi che alzandola avrei visto tutto come sempre.
Mi illudevo, appunto, perché appena alzai gli occhi mi chiesi se stessi sognando.
C’erano forse cento persone nel mio salotto, se non di più. Duecento occhi che si posarono immediatamente su di me. C’era chi piangeva, chi mi rivolgeva un piccolo e caloroso sorriso, chi corse da me per esprimere inutili parole di conforto.
Ma i miei occhi si concentrarono solo su una cosa, solo su quel dettaglio, solo su quell’immagine che mi fece venire i brividi.
La bara era lì, quasi a fissarmi. Quel coperchio di legno lucente che brillava sotto i raggi del sole che entravano dalla finestra, quasi mi accecò.
D’improvviso percepii un nodo in gola, capii in fretta che erano le lacrime che stavo inutilmente trattenendo. Ma non potevo, non lì, non con tutti a guardarmi.
Le lacrime arrivarono agli occhi ed io tentai ancora di non lasciarle andare oltre.
Mi bastò un minuto per capire che non ce l’avrei fatta, e con occhi appannati di pianto corsi in giardino scappando da innumerevoli braccia che tentavano di afferrarmi.
Il vento freddo mi punzecchiò le guance, ed io mi sentii sollevata perché finalmente avevo ripreso a respirare.
Nonostante il freddo di Novembre, il sole splendeva ed il cielo era dipinto di un azzurro pastello. Era proprio una bella giornata, se non fosse per il temporale che mi scoppiava dentro. Osservai il cielo e mi lasciai accarezzare dai raggi del sole, una farfalla si posò sul mio vestito, ed io mi ritrovai a parlare al vento, pronunciando parole che non avrei mai immaginato sulle mie labbra.
<Addio mamma, ci vediamo nei miei sogni.>

Come amano le stelleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora