Uccisi da un amore

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“Mia cara, trova ciò che ami e lascia che ti uccida.
Lascia che ti prosciughi.
Lascia che si aggrappi alla tua schiena
e che ti pesi trascinandoti nell’insignificanza.
Lascia che ti uccida e che divori i tuoi resti.
Molte cose ti potrebbero uccidere,
alcune lentamente,
altre velocemente,
ma è molto meglio essere uccisi da un amore.”
Charles Bukowski





Ansia.
Se provi a cercare su internet, su un libro o su un qualsiasi dizionario, probabilmente questo termine verrebbe spiegato così:
1.Affannosa agitazione interiore provocata da bramosia o da incertezza.
2.In psichiatria, senso di apprensione simile all'angoscia.
Chi la conosce invece, e la conosce davvero, sa che c’è molto di più.
Il termine “ansia” deriva dal latino angĕre, che significa stringere,  ed è proprio così che ti senti.
Senti qualcosa che stringe il tuo petto, il tuo cuore, ti chiude la gola e ti offusca i pensieri. È come se intorno a te tutto diventa nero, e non riesci neanche più a ricordare come stavi prima. Per una persona che ne soffre, tutto diventa ansia.
Perfino le cose più semplici, le più banali, improvvisamente prendono la forma di un enorme montagna insormontabile.
Andare a fare la spesa, uscire con un’amica, andare in un locale che non frequenti spesso, ad una festa con persone che non conosci. Le situazioni in cui ti ritrovi al centro dell’attenzione, quelle per cui non ti eri preparata, quelle nuove, quelle a cui non ti sei ancora abituata.
Tutto può chiamarsi ansia, e le giornate con lei non sono mai belle.
A volte anche alzarsi dal letto risulta difficile, fare una doccia o prepararsi il pranzo.
Quando ti svegli con questo peso sul cuore, che ti toglie l’aria dai polmoni, pensi che forse sia meglio rimanere a letto. Cosa può farti del male se rimani lì, in quel posto sicuro? Niente, ma allo stesso tempo tutto, perché la persona che può farti più male sta proprio dentro la tua testa.
Io la chiamavo Kitsune, la mia ansia.
Secondo la mitologia giapponese, la Kitsune, è una volpe maligna e dispettosa dalla natura malvagia, in grado di possedere le persone.
Per me, quello, era un modo migliore per definire l’ansia, rispetto alle definizioni che troviamo sul dizionario.
L’ansia è proprio come una Kitsune, è dispettosa e malvagia, trasforma le tue giornate in buchi neri, ti impedisce di fare anche le cose più banali, e probabilmente nel frattempo se la ride.
La chiamavo anche vecchia amica, però, perché io e lei ci conoscevamo bene.
Le giornate con l’ansia erano un cliché nella mia vita, a volte mi riusciva complicato anche solo uscire in giardino, aprire le tende, togliermi il pigiama. Tutto sembra così spento, così difficile, sbagliato. Quella vocina ti sussurra all’orecchio e alla fine tu le dai ascolto.
Io però avevo imparato a gestirla con il tempo, a tenerla a bada, a mettere la museruola alla mia volpe. Era una guerra aperta, tra noi, e ogni volta che lei mi sussurrava che non potevo farcela, io mi alzavo da quel maledetto letto e le dimostravo che invece potevo fare qualunque cosa. Mi ero lasciata abbattere da lei, dopo la morte della mamma, ero rimasta chiusa in casa per un anno, perché anche uscire per una passeggiata mi faceva stare male. Avevo imparato a non darle più ascolto, ad abbassare il volume della sua voce nella mia testa, e ci ero riuscita soprattutto grazie ad Ellie.
Lei mi trascinava fuori casa anche con le scuse più assurde, una volta mi chiedeva di accompagnarla dal parrucchiere, un’altra di andare con lei a comprare uno spazzolino o una qualsiasi altra cosa di cui in realtà non aveva bisogno. Nonostante stessi davvero uno schifo prima di uscire, quando poi mi ritrovavo fuori con lei non me ne ricordavo neanche più. Lei era in grado di straparlare per ore, portando la mia mente a saltellare da un discorso all’altro senza neppure rendersene conto, alla fine non rimaneva spazio per l’ansia lì dentro.
Ellie non lo sapeva, ma ogni volta aggiustava qualcosa dentro di me, a piccoli pezzi, aggiustava quello che non aveva rotto lei.
Adesso però, Ellie non c’era, e la mia volpe era tornata a sussurrarmi all’orecchio.
Blake aveva accettato il mio invito senza porre alcuna domanda, il che fu un sollievo per me. Aveva detto che saremmo andati in un locale in cui si recavano sempre dopo una corsa, poi aveva precisato che ci sarebbe stato anche Dylan, chiedendomi se sarebbe stato un problema per me. Se solo sapesse che era esattamente ciò che volevo.
Quando era passato a prendermi con la sua moto, dovetti sforzarmi per indossare il migliore dei miei sorrisi e fingere che quell’appuntamento fosse ciò che desideravo con tutta me stessa.
Stare seduta su una moto che non era quella di Dylan, stretta ad un corpo che non era il suo, provocò dentro di me un tumulto di sensazioni, portandomi a rendermi conto che se non era lui, allora per me non poteva esserci nessun altro.
Avevo esitato quando Blake si era proposto di venirmi a prendere, soprattutto perché l’abito succinto che avevo accuratamente scelto per quell’occasione, per calarmi nella parte, non era affatto adatto per andare in moto.
Ma quando arrivammo davanti al locale, e vidi Dylan appoggiato alla sua moto mentre fumava una sigaretta, capii che avevo fatto la scelta giusta.
I suoi occhi si posarono su di me quando Blake parcheggiò la moto ed io scesi senza preoccuparmi del vestito che si alzava troppo sul sedere.
Era un tubino color ametista che aderiva ad ogni singola curva del mio corpo, accentuando il mio seno anche troppo scoperto per i miei gusti. Le spalline erano sottili e si incrociavano sulla mia schiena, avevo acconciato i capelli in uno chignon basso affinché si vedessero. Avevo anche osato con il trucco, e dio, mi sentivo davvero bellissima.
Anche Blake doveva pensarla così,  perché quando ero uscita di casa aveva fischiato come se fossi un cane pronto a scodinzolare e correre da lui, mi ero trattenuta dallo spingerlo giù dalla moto.
Dylan non si mosse invece, i suoi occhi rimasero puntati su di noi mentre gli passavamo davanti per entrare nel locale e Blake mi poggiava una mano sulla schiena.
Proprio quando entrammo nel locale, lasciandoci Dylan alle spalle, la mia volpe tornò a farsi viva.
Mi ero immaginata un normale locale con un bancone e dei tavoli, un posto in cui ero già stata, in cui sapevo comportarmi.
Ma quella che avevo davanti, invece, era una discoteca. Ed io non ero mai stata in una discoteca.
Tutti i possibili scenari che mi ero immaginata prima di uscire, affinché sapessi come comportarmi, adesso erano inattuabili.
D’altra parte però, il piano doveva procedere, e doveva riuscire, perciò presi un lungo respiro e zittii la mia volpe, dicendo a me stessa:
the show must go on
Non so quanto tempo passai a ballare fingendo di divertirmi, avevo persino perso il conto delle volte in cui Blake mi aveva chiesto se volessi qualcosa da bere ed io avevo rifiutato, non potevo permettere che l’alcol mandasse a monte il mio piano.
Piano che però non stava per niente riuscendo.
Dylan era rimasto tutto il tempo seduto su uno dei divanetti a bordo pista, con una birra in mano, a fissare ogni mio singolo movimento.
La mano di Blake che si posava sui miei fianchi per poi scendere sul mio sedere, la sua testa che si incastrava nell’incavo del mio collo mentre ci muovevamo piano a ritmo di musica, le sue labbra che si poggiavano delicate sulle mie spalle scoperte.
L’avevo lasciato fare, anche se avrei voluto prenderlo a pugni, ma non avevo mai smesso di guardare Dylan. Conoscendolo, mi sarei aspettata di vederlo correre verso di noi per poi assestare un pugno dritto sullo zigomo di Blake, invece lui non si muoveva.
A quel punto iniziai a credere che forse era meglio lasciar perdere, che quella era la risposta che stavo cercando, seppur diversa da come la desideravo.
Forse era vero ciò che aveva detto, non gli importava di me, non significavo niente per lui e non gli importava neppure se uscivo con un altro, nonostante fosse il suo peggior nemico.
Avrei dovuto arrendermi, ma una vocina dentro la mia testa mi sussurrò di giocare un’ultima carta.
<Andiamo a sederci per un po', sono stanca.>
Sussurrai all’orecchio di Blake.
<Certo, tesoro.>
Era la terza volta che mi chiamava “tesoro”, iniziava a venirmi da vomitare.
Poggiò un’altra volta la mano sulla mia schiena e ci incamminammo verso i divanetti, come avevo previsto si diresse verso l’angolo in cui stava seduto Dylan, dato che c’era parte dei corridori seduta lì.
Si sedette proprio di fronte a lui, e mi fece segno di accomodarmi sulle sue ginocchia, io ovviamente non me lo feci chiedere due volte.
Mi misi comoda sulle sue gambe, mentre lui poggiava la mano sul mio fianco e con l’altra reggeva il suo quarto drink.
Mi domandai per un attimo come avrebbe fatto poi a riaccompagnarmi a casa dopo tutti quei drink, ma decisi che sarebbe stato un problema che avrei risolto dopo, nel caso in cui Dylan non avesse deciso di salvarmi dal cretino su cui stavo seduta.
Finsi di interessarmi alla conversazione tra Blake e gli altri, ma con la coda dell’occhio continuavo ad osservare Dylan.
Sentivo il peso del suo sguardo addosso, lo sentivo seguirmi, bruciarmi, ma mi finsi indifferente. Finsi di essere esattamente dove volevo essere, con Blake, con le sue mani su di me. Finsi che lui non esistesse e mi lasciai andare a risate calorose, facendo girare le mie braccia intorno al collo di Blake. Lasciai che le sue mani si muovessero su di me, dal fianco al sedere, per poi scendere sulle mie cosce e spostare l’orlo del mio vestito. Lo lasciai fare quando si avvicinò al mio collo ed iniziò a baciarlo, muovendo la lingua e mordicchiando il mio lobo.
Dylan però, era immobile.
Era inutile, capii, ridicolizzarmi, fingere che il tocco di Blake era ciò che desideravo quando invece avrei solo voluto la bocca di Dylan su di me.
Era inutile tutto quel piano.
Mi ero illusa, credendo che con un simile sotterfugio sarei riuscita a riportarlo da me, con me. Ma non puoi obbligare qualcuno ad amarti.
Lui non mi amava e non mi voleva, era ormai il momento di accettarlo.
Fu per questo che, quando Blake mi domandò se avessi voglia di andare in posto più tranquillo, con ancora la lingua sul mio collo, accettai.
Sapevo che per lui quello era il momento in cui si passava al sesso, ma per me era solo un modo per allontanarmi da Dylan senza smascherare la mia recita.
<Io e Alya ce ne andiamo, abbiamo voglia di un po' di intimità, non è così tesoro?>
Avevo smesso di contare le volte in cui mi chiamava “tesoro” già da un pezzo. Irritata, annuii e mi alzai, e lui fece lo stesso. Poggiò un’altra volta la mano sul mio fondo schiena e ci girammo per dirigerci all’uscita.
Non ebbi neppure il tempo di fare un passo che una presa forte e sicura mi afferrò il braccio costringendomi a rigirarmi.
Il mio cuore prese a galoppare e saltellare quando mi trovai davanti Dylan, le sopracciglia corrugate e lo sguardo indurito.
<Dobbiamo parlare.>
Disse, in tono serio, fissandomi negli occhi.
Ero già pronta per gettarmi al suo collo, pronta a seguirlo ovunque, ma Blake parlò alle mie spalle.
<Lasciala perdere Johnson, lei adesso sta con me.>
Dylan si limitò ad alzare lo sguardo e a spostarlo su di lui, senza lasciarmi il braccio.
<Vaffanculo, Blake.>
Blake mi afferrò l’altro braccio ed io mi ritrovai intrappolata tra loro due.
<Diglielo che vuoi venire via con me, tesoro.>
Dylan si mosse rapido, tirandomi leggermente verso di sé e spostandosi tra me e Blake.
<Un’altra volta Blake>
Disse in tono aspro, ad un centimetro dalla sua faccia.
<Chiamala tesoro un’altra volta e ti ritroverai senza la lingua.>
Faceva improvvisamente caldo o era solo una mia impressione?
<Fanculo!>
Blake non protestò molto, si girò e se ne andò. Per fortuna, direi, iniziavo a sentirmi in colpa per aver dato inizio a una rissa.
Dylan tornò a stringere il mio braccio e mi trascinò fuori dal locale, dove una pioggia prepotente ci colpì, bagnando i nostri vestiti in un attimo.
<Che cazzo credevi di fare, Aly?>
D’accordo, calma Alya, avevi previsto la sua furia, infondo era questo che volevi no? Una reazione.
<Sono uscita con un altro, c’è qualche problema?>
Non dovevo abbandonare la parte, non potevo lasciare che capisse che era stata solo una recita per indurlo a tornare da me.
<Con Blake? Sul serio? Mi vengono in mente almeno un centinaio di problemi.>
<Hai detto tu che potevo uscire con qualcun altro, hai detto che ti andava bene.>
<Non ho mai detto che mi sarebbe piaciuto, però.>
Era così bello, con i capelli bagnati dalla pioggia e la maglietta incollata al petto. Avrei voluto abbracciarlo, stringerlo forte, baciarlo mentre l’acqua bagnava le nostre labbra.
Ma qualcosa in quella sua risposta aveva scatenato l’inferno dentro di me.
Volevo una sua reazione, ma ero anche stanca di stare appresso alle sue contraddizioni.
Ero stanca del suo allontanarmi, del suo tornare ma non restare.
<Ti odio!>
Urlai, e forse per un attimo lo pensai davvero.
Lui accennò un sorriso, un sorriso che sapeva di sfida.
<Bugiarda.>
Si avvicinò a me piano, ed io rimasi a guardare le goccioline che scivolavano sul suo viso finché non mi ritrovai inchiodata al muro, senza neppure essermi accorta di aver indietreggiato.
Poggiò la sua fronte sulla mia, ed io chiusi gli occhi per un attimo.
<Dì la verità Aly, mi odi davvero?>
<Si.>
Dissi in sussurro, con ancora gli occhi chiusi.
<Ti odio.>
Fece scendere la sua mano sul mio fianco ed io iniziai a tremare, per il freddo o forse a causa del suo tocco.
<Ti odio perché mi ricordi tutto ciò che ho desiderato dimenticare. Ti odio perché sei impulsivo, testardo.>
Feci una pausa, il mio cuore accelerava, le mie gambe iniziavano a farsi molli. La sua bocca era così vicina alla mia che sentivo i nostri respiri mescolarsi e diventare uno solo, avrei tanto voluto baciarlo, ma ero così stanca di quel gioco.
<Continua.>
Sussurrò con il respiro irregolare.
<Ti odio perché sei tutto ciò che mi ero ripromessa di non desiderare mai più, perché mi ricordi un amore che non è mai stato sincero.>
Fece scendere una mano sulla mia coscia, giocherellando con l’orlo del mio vestito, ed io mi zittii.
<Continua, non distrarti.>
Presi un lungo respiro, mentre le nostre bocche si sfioravano senza mai lasciarsi andare a quel bacio.
<Ti odio perché menti, perché mi sfuggi, perché non mi parli.>
Mi bloccai quando un nodo si formò nella mia gola, sentendomi improvvisamente incapace di respirare.
<Ti odio perché fai sempre di testa tua, perché mi tratti come un giocattolo, io non sono un giocattolo Dylan.>
Continuò a stuzzicare l’orlo del mio vestito, facendolo risalire piano.
<Continua Aly, ma sii sincera adesso.>
La sua mano iniziò a risalire sotto il mio vestito ed mi sentii senza più la forza, non volevo più giocare.
<Ti odio perché sei uno stronzo!>
Sbottai e lo allontanai da me, spingendolo via mentre le lacrime iniziavano a scendere.
Lui mi guardò incredulo, ma non parlò.
<Ti odio per un milione di motivi diversi.>
Mi avvicinai nuovamente a lui, incastrai i miei occhi ai suoi e mi sentii improvvisamente consumata da tutto ciò che avevo tenuto dentro fino a quel momento.
<Ma ti amo, dannazione.>
Dissi tra i singhiozzi.
<Così tanto che dimentico quel milione.>
Non lasciai al mio cuore il tempo di pentirsene, lo lasciai libero. Lo strappai dal mio petto e lo poggiai nelle sue mani, lasciando alle mie emozioni la libertà di andare dove volevano.
<Ti amo perché mi hai ricordato come si sorride, perché mi hai mostrato un finale diverso per il libro sulla mia vita.>
Alzai una mano e la poggiai al suo petto, sentendo il suo cuore battere veloce sotto il mio palmo.
<Ti amo perché hai dipinto il nero che c'era in me, perché hai riportato il colore.>
Una goccia scese dal suo occhio, ma non seppi riconoscere se fosse la pioggia oppure una lacrima.
<Ti amo perché sei la stella che ha illuminato la mia notte.>
Sussurrai, mentre lui prendeva il mio viso tra le mani ed iniziava a scuotere la testa.
<Ti amo così tanto Dylan, che dimentico cosa significa odiarti. Così tanto, che dimentico cosa significa odiare me stessa.>
Rimasi lì ferma a fissarlo e a piangere. Ci perdemmo l’uno negli occhi dell’altra, ed io immaginai che le nostre anime stessero facendo già l’amore.
<Mi ami?>
Parlò con un filo di voce, come se stesse soffocando i singhiozzi.
<Si Dylan, io ti amo.>
Ripetei quelle cinque lettere senza esitare. Avevo aspettato così tanto prima di pronunciarle, adesso mi sentivo più leggera, adesso avrei voluto dirgliele per sempre.
<Perché?>
La sua domanda mi stupì, ma probabilmente ero stata una stupida a pensare che sarebbe stato così semplice con lui.
<Come sarebbe a dire perché?>
<Perché ami una persona come me?>
Il verde dei suoi occhi non mi era mai sembrato così bello come in quel momento, avrei voluto tirarlo fuori e dipingerci le pareti della mia camera, o magari direttamente il cielo.
<Non dovrebbe essere amata una persona come te?>
<No.>
Rispose deciso, e il mio cuore si scheggiò ancora un po'.
Te lo meriti
Volevo dirgli.
Meriti di essere amato, te lo puoi permettere, puoi prendere questo mio amore e lasciare che ti uccida.
Una persona come te può essere amata, perché non ha niente che non va.
Sei perfetto, ed io ti amo.
Ti amo così tanto che ho paura, così tanto che mi consuma, così tanto che mi brucia dentro.
Prendilo, prendi il mio amore, io voglio darlo solo a te.
<Perché?>
Dissi, invece.
Lui si sporse e poggiò le sue labbra sulle mie, il suo bacio non fu per niente delicato, ed io mi lasciai rapire. Mi aggrappai a lui e mi persi tra le sue labbra.
Ti amo
Volevo dirgli ancora e ancora.
<Amarmi ti farà male.>
Disse, interrompendo quel bacio, con il mio viso ancora tra le mani.
<Farà male anche a me.>
Lasciò il mio viso, e ancor prima di rendermene conto, mi ritrovai a guardarlo mentre correva sotto la pioggia, mentre se ne andava via da me.
Caddi in ginocchio e le mie lacrime si mischiarono alla pioggia, sentendomi logorata da quell’amore che continuava a scivolarmi tra le mani, continuava a scappare via da me.

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