L'amore è l'ossigeno della vita

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Trascorsero due settimane.
Due settimane da quel ballo, dalle sue parole, dall’ultima volta che avevo assaporato il suo profumo, percepito il calore della sua pelle contro la mia.
Due settimane dall’ultima volta che avevo visto i suoi occhi, sentito il battito del suo cuore mescolarsi al mio.
In quelle due settimane mi ero spenta, ero come una stella in caduta libera,  precipitavo e precipitavo, la mia luce si faceva sempre più lieve. Mi preparavo per lo schianto finale, per quel momento in cui finalmente avrei smesso di precipitare e sarei diventata solo polvere.
Mason mi aveva sostituita al lavoro senza problemi, implorandomi però di tornare in me, di volermi bene.
Ma io di bene non me ne volevo, non l’avevo mai fatto, non ci avevo mai neppure provato.
Non c’era il tempo, non c’era lo spazio nel mio cuore, per amare anche me stessa. E forse non credevo neppure di meritarlo, quell’amore.
In quelle due settimane mi persi spesso a guardare fuori dalla finestra, ammirando le giornate passare, la luce ed il buio che si scambiavano di posto.
La notte era sempre stata la mia parte preferita della giornata.
Amavo la notte perché era l’unico momento in cui potevo respirare, l’unico in cui finalmente potevo far sparire quel falso sorriso dal mio volto e liberare le mie lacrime dalle catene. Era l’unico momento in cui potevo smettere di dire “sto bene”, ma guardarmi allo specchio e dire a me stessa “sto bruciando”.
Alla fine la gente è facile da ingannare, un bel sorriso e loro ci credono a quel “sto bene”, ma io non volevo più fingere.
Io volevo gridare, sto bruciando.
Perché era così, andavo a fuoco. Bruciavo dentro, il mio corpo era invaso dalle fiamme, ma nessuno ti sa mai guardare dentro.
Se non lo vedono, quel fuoco, non capiranno mai quanto ti brucia.
Finsi di non pensare, in quelle due settimane, a quella notte d’estate di due anni fa in cui mi ero ritrovata con i palmi sul marmo freddo del davanzale della mia finestra, a guardare in basso chiedendomi quanto avrebbe fatto male, se ne avrebbe fatto abbastanza. La gente avrebbe visto il fuoco a quel punto? Sarebbe servito quel gesto per fargli capire quanto dolore provassi?
Fu Noah, quella notte, a impedirmi di scoprirlo.
Era entrato in camera mia aprendo piano la porta, poi con voce assonnata mi aveva detto di aver fatto un brutto sogno. Ci eravamo stesi sul pavimento, sotto il lucernario a guardare le stelle, e quando si era addormentato con la sua piccola manina dentro la mia lo avevo spostato sul letto. Ero tornata a poggiare i palmi su quel davanzale dopo, ma avevo guardato in alto stavolta, e avevo capito che c’era qualcuno che aveva bisogno di me, qualcuno per cui valeva la pena sopportare quelle fiamme.
Pensai molto a Dylan in quelle due settimane, mentre le giornate passavano veloci ed io mi mescolavo al silenzio.
Cercai di capire come mai, dopo tutto quel tempo e tutti quei problemi, preferivo ancora sopportare tutto questo piuttosto che stare senza di lui.
Preferivo spegnermi, perdermi, ridurmi in tanti minuscoli pezzi, piuttosto che immaginarmi senza di lui.
La verità è che prima di lui mi sembrava di non esistere, mi sentivo come un filo d’erba in un campo di alti e colorati fiori.
Invece con lui, era tutto al contrario, con lui mi sentivo l’unico fiore in mezzo ad un prato verde.
Il fatto è che i momenti peggiori, con lui, non erano neppure paragonabili a quelli migliori. Nonostante tutto, io riuscivo solo a ricordare i nostri momenti felici, quelli tristi per me erano solo una sfumatura di poco conto.
Forse mi si poteva considerare pazza, perché solo la follia può spingerti a pensare che una persona del genere rappresenta la tua felicità, di sicuro ero pazza.
Ma i sorrisi con lui erano sempre stati più chiassosi delle lacrime, più veri, più forti.
Io amavo quel ragazzo, lo amavo con ogni parte del mio corpo, con ogni respiro, con ogni sorriso e con ogni lacrima. Volevo davvero, con tutto il cuore, trovare un modo per stare con lui, per sempre.
Fu quell’amore che mi spinse ad alzarmi dal letto alla fine di quelle due settimane, quell’amore mi convinse a lavarmi e vestirmi quel giorno, fu lui a darmi la forza per domare il mio fuoco.
Ero decisa, quel giorno, sarei tornata al lavoro, stavolta con un sorriso, e poi avrei trovato un modo per aggiustare tutto. Ce la potevo fare, ce la dovevo fare.
Quando arrivai alla porta di ingresso però, con la mano già sulla maniglia, guardando in basso notai un dettaglio che portò il mio cuore a battere veloce.
Una busta giaceva sul pavimento, metà ancora sotto la porta, un sigillo di cera azzurro a chiudere l’aletta superiore.
Mi sedetti a terra senza staccare gli occhi da quella carta bianca, la presi tra le mani tremanti e notai che non riportava il nome dell’emittente. Sul retro, scritto a penna con una calligrafia che avrei riconosciuto anche al buio, c’era scritto:
Alya
Ruppi il sigillo ed aprii la lettera mentre i miei occhi iniziavano ad appannarsi di pianto. Quando cominciai a leggere, le lacrime sgorgarono senza freno, cadendo sulle mie mani che reggevano quel foglio sporco di inchiostro.
Nel frattempo, mi resi conto che c’era un motivo se quella lettera era arrivata lì proprio quel giorno, perché non era un giorno qualunque, era il ventisette Agosto.
Era il mio compleanno.

Come amano le stelleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora