Occhi verdi e caffè

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Ero nascosta tra coperte e cuscini quando la sveglia suonò, non avevo proprio voglia di alzarmi, ma non ce l’avevo mai. Trovai le forze solo quando mi ricordai che quello sarebbe stato il mio primo giorno di lavoro.
Avevo lasciato la scuola da quando mamma non c’era più. Non volevo tornarci in quel posto, quel posto che mi faceva sentire sempre così diversa dagli altri, sempre un gradino più in basso. Inoltre, con la morte della mamma, non avevo voglia di avere gli occhi addosso, o di dover sopportare la compassione della gente.
Papà non si era mai ripreso, era in caduta libera senza la mamma. A stento mangiava, a stento si alzava dal letto. Fin dal primo giorno senza di lei mi sono presa cura della famiglia, da quel giorno la mia vita girava intono a bucato, pranzo, cena, tutto quello di cui aveva bisogno la casa. In più mi occupavo di papà e della sua depressione, accompagnavo Noah a scuola, andavo a riprenderlo e gli davo tutto ciò di cui un bambino di sei anni aveva bisogno.
Era difficile nascondere il mio dolore, certe notti le passavo in bianco, era sempre difficile dormire. A volte piangevo, altre non riuscivo a fare neanche quello.
Nonostante tutto ogni giorno mi alzavo dal letto e cercavo di vivere per due, per me e per lei.
Avevo appena finito di fare la doccia quando sentii papà chiamarmi dalla sua stanza, mi affrettai a vestirmi e corsi da lui preoccupata che fosse successo qualcosa. Quando entrai vidi Noah che saltava sul letto urlando come un pazzo.
<Ti prego, mi fa male la testa, portalo fuori di qui ho bisogno di dormire.>
Papà aveva sempre bisogno di dormire ormai, forse era l’unico modo che aveva per non pensare a lei. Ma Noah era ancora un bambino, non poteva capirle certe cose, aveva bisogno di un padre. Quando riuscì a farlo uscire dalla stanza mise il broncio come al solito e camminò fino in cucina con le braccia conserte.
<Cosa vuoi per colazione?>
Gli chiesi, cercando di tirargli su il morale con il cibo, ma lui non rispose.
<Latte e cereali al cioccolato, come piace a te, va bene?> ritentai.
Dopo un minuto si decise ad aprire bocca.
<Perché papà non mi vuole più bene? Io non gli ho fatto niente, o almeno credo, anche se l’ho fatto non me lo ricordo.>
Il cuore mi faceva male ogni volta che si dava la colpa per le condizioni di papà, lui non poteva capire ed io non sapevo come spiegarglielo.
< Non è vero che non ti vuole più bene, è solo molto triste.>
Cercai le parole più semplici possibili.
<E perché è triste?>
A quel punto il suo broncio si era addolcito, e aveva iniziato a gustare il latte e i cereali che nel frattempo gli avevo messo davanti.
<Perché gli manca la mamma.>
< E a te non manca? Tu non sei triste?>
Quanta innocenza dietro le parole di un bambino, e quanto avrei voluto avere la sua età per vivere la cosa con quell’innocenza.
<Si, manca anche a me. Ma adesso sbrigati a finire o farai tardi a scuola.>

Mentre mi dirigevo alla macchina, dopo aver lasciato Noah a scuola, mi prese una stretta allo stomaco. Realizzai di dover andare a lavoro, e l’ansia si impossessò di me.
Non avevo mai lavorato prima, ma dopo la morte della mamma decisi che era arrivato il momento. Avevo abbandonato a malincuore l’idea di fare la scrittrice, ciò che sognavo fin da quando ero bambina. Ma crescendo mi ritrovai a fare i conti con la realtà, acquisendo la consapevolezza che era un sogno irrealizzabile. Non sarei mai riuscita a scrivere un libro, né tanto meno a trovare un editore. Nonostante fosse uno dei miei più grandi sogni, dovetti riporlo in un cassetto, il mio stupido sogno non avrebbe mai pagato le spese.
Qualche settimana fa avevo trovato lavoro in un piccolo bar in centro, solo la mattina, il giusto tempo in cui Noah era a scuola. Era perfetto.
Arrivata alla macchina riuscì a cacciare quella terribile sensazione di ansia, ero diventata brava da quando la mamma non c’era più e l’ansia era diventata parte integrante di me. Mentre mi dirigevo al bar misi della musica sullo stereo, la musica è da sempre una delle poche cose che mi rilassa e che mi impedisce di pensare troppo. Ottenni i risultati sperati, infatti arrivata al bar mi sentivo rinata, piena di energie e pronta a cominciare questa avventura. Appena entrata trovai Bill, il proprietario del bar. Avevo fatto con lui il mio colloquio e si era mostrato abbastanza entusiasta di assumermi e pronto ad aiutarmi nel lavoro. Era un uomo di quarantasei anni, alto e panciuto. Aveva pochissimi capelli ma in compenso aveva una barba folta e ben curata, capì da subito che tenesse più a quella che a qualsiasi altra cosa.
<Ciao Alya, sei in anticipo.>

Dopo avermi spiegato per bene cosa avrei dovuto fare, Bill uscì per delle commissioni ed io rimasi da sola al bar. Erano passate due ore da quando era uscito e non si era vista neanche l’ombra di un cliente. Mi annoiavo a morte perciò decisi di prendere il computer, che per fortuna avevo portato con me, e di mettermi un po' a scrivere. Non potevo fare della scrittura il mio lavoro, ma rimaneva pur sempre uno tra i miei passatempi preferiti.
Come al solito, scrivendo persi la cognizione del tempo, mi scordai addirittura dove fossi. Dopo non so quanto tempo una voce mi richiamò alla realtà, interrompendo i fiumi di parole che stavo stampando su un foglio.
<Sei qui per scrivere o per servire caffè?>
Guardai oltre lo schermo già irritata, ma non appena vidi chi avevo davanti dalla mia bocca non uscì neanche una parola.
Era un ragazzo di qualche anno più grande di me, supposi, dato che aveva una felpa della Northern Arizona University. Era alto, capelli neri come il carbone, palesemente atletico e con dei grandi occhi verdi che mi tolsero il respiro non appena incontrarono i miei.
<Ciao, scusami non ti ho sentito entrare.>
Cacciai fuori a malapena quelle stupide parole.
<Si, questo l’ho notato. Allora mi dai questo caffè?>
Gli occhi verdi più belli che avessi mai visto contornati da così tanta maleducazione. Poteva anche essere così bello da avermi tolto il fiato per un attimo, ma era davvero antipatico.
Mi affrettai a fargli quel suo stupido caffè così poteva andarsene ed io potevo tornare a fare ciò che stavo facendo prima che antipatia mi disturbasse.
<Ecco a te.>
Dissi, con lo sguardo più cattivo che potessi fare.
Rimase lì a fissarmi per un minuto, mentre io mi chiedevo con quale battuta antipatica se ne sarebbe uscito stavolta.
<Grazie splendore, ci vediamo domani.>
Splendore?
Ma che cavolo significa?
Se ne andò mentre nella mia mente gliene stavo dicendo quattro, capendo da subito che era probabilmente il tipico ragazzo convinto di piacere a tutte. Ma non a me, a me non sarebbe mai piaciuto un ragazzo così.
Quando tornò Bill avevo già messo a posto ed ero pronta per andare via.
<È venuto qualcuno?>
mi chiese, con occhi colmi di speranza.
<Soltanto un ragazzo.>
Gli risposi, dispiaciuta.
<Oh deve essere Dylan, lui viene ogni mattina.>
Ecco che intendeva con “ci vediamo domani”, ciò significava che l’avrei rivisto l’indomani e tutti i giorni a seguire. Ogni giorno avrei dovuto vedere quei meravigliosi occhi verdi e sopportare quella sua antipatia. La situazione non mi piaceva affatto.

Mentre aspettavo che Noah uscisse da scuola telefonai a Ellie.
Ellie era la mia migliore amica dalla quarta elementare, da quando lei era quella nuova ed io quella emarginata e presa di mira dai bulli. Mi aveva difesa da Alan, il capetto dei bulli della mia classe, da quel giorno siamo diventate inseparabili. Ho pianto tra le sue braccia quando persi la mamma, non mi ha lasciata sola neanche un attimo nei giorni a seguire. Lei è, senza dubbio, il mio più grande punto di riferimento.
<Occhi verdi e tanti muscoli, mi piace!>
<Si, ma dimentichi il fatto che sia l’essere più insopportabile che io abbia mai conosciuto.>
<Aly, i ragazzi cattivi sono sempre i migliori, sono in tutti i film! Poi si rivelano sempre tanto romantici e, soprattutto, bravissimi a letto.>
<Io non devo andarci a letto Ellie.>
<Fossi in te valuterei l’opzione. Adesso devo andare, ti voglio bene.>
Ellie aveva da sempre una fervida immaginazione, per lei la vita era come un film che finisce con il “e vissero per sempre felici e contenti”, ma per me non era così.
Noah salì in auto con un ampio sorriso, evidentemente ansioso di raccontarmi qualcosa.
<La maestra ci ha dato un progetto da svolgere con i nostri papà.>
Mi si strinse il cuore, un’altra volta.
<Che bello, magari puoi chiedere a nonno Lucas di aiutarti, che ne dici?>
<Non voglio farlo con nonno Lucas.>
Riecco il broncio.
<Okay, allora posso aiutarti io.>
<No io voglio farlo con papà, tutti i miei compagni lo faranno con i loro papà, perché io non posso farlo con il mio?>
Questa volta che avrei dovuto dire? Non mi venne in mente nulla in grado di calmarlo, aveva già iniziato a piangere e urlare. Stavolta non mi andava proprio di cercare una soluzione.
Quando arrivammo a casa corse nella sua stanza sbattendo tutte le porte che gli capitavano davanti, ed io mi diressi in cucina per preparagli qualcosa da mangiare, affranta. Con mia grande sorpresa trovai nonna Anna ai fornelli ed uno squisito profumino che si propagava per tutta la cucina.
<Ciao nonna, che ci fai qui?>
Per me era sempre un sollievo averla in casa, significava riuscire a rilassarmi un po’ e fare le cose che le ragazze della mia età fanno di solito.
<Dato che era il tuo primo giorno a lavoro ho pensato che poteva farti comodo trovare già qualcosa di pronto in tavola.>
Nonna Anna era premurosa e buona, era sempre un ottimo rifugio per me. Conosceva sempre le parole giuste da dire, e mi dava sempre la dose di amore che mi mancava da un po'.
Le raccontai cosa era successo con Noah, e con le sue solite parole dolci ma ragionevoli, mi convinse a tentare di chiedere a papà.
<Per amore si fanno dei sacrifici bambina mia, e tuo padre vi ama immensamente.>
Con queste sue parole ancora in mente, dopo mangiato andai da lui. Rimasi sorpresa nel trovarlo sveglio, e pregai con tutta me stessa che fosse di buon umore.
<Ciao scimmietta, qualcosa non va?>
“Scimmietta” era il nomignolo con cui papà mi chiamava fin da piccola, perché non facevo altro che arrampicarmi su tutto quello che era più alto di me, lui compreso.
Se mi chiamava così, significava solo che era di buon umore, ed il mio cuore diventò più leggero.
Dopo avergli raccontato tutto tacque per un attimo, poi sorrise, entusiasta.
<Certo che lo aiuterò, anzi vado subito, non serviva neanche chiedere.>
Con ancora quel sorriso stampato sul viso, saltò giù dal letto, infilò le pantofole e corse da Noah.
Io rimasi seduta sul letto, in quella stanza che era colma di ricordi, immobile e consapevole. Ormai conoscevo bene la malattia di papà, c’erano giorni pieni di enormi SI, seguiti sempre da settimane piene di devastanti NO. Non mi illudevo più che i giorni del SI potessero durare per sempre, mi preparavo solo al peggio che sapevo sarebbe arrivato presto.
Smisi di pensarci quando il mio telefono squillò inaspettatamente.
Era Ellie.
<Amica mia, preparati, stasera andiamo a una festa!>
<Cosa? No Ellie io..>
<Prima che tu dica di no, sappi che sono già qui fuori, pronta a trovare un rimedio a qualsiasi impedimento tu mi proponga.>
Cavolo, mi aveva fregata.

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