Il labirinto del Minotauro

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Quello era un po' come l’ultimo giorno dell’ultimo anno di liceo.
Sei felice, perché sai che quella tortura è finita, arriverà l’estate e con lei tante altre nuove cose. Sarai finalmente libero da quelle regole, dalle sveglie al mattino presto quando fuori piove e tu vorresti solo restare al caldo nel tuo letto, dalle interrogazioni infinite e dai compiti in classe in cui il foglio rimane bianco.
Però, allo stesso tempo, dentro di te, c’è una minuscola parte che è triste, che vorrebbe tornare indietro.
Ti guardi intorno: quei corridoi spogli, quei banchi ormai troppo piccoli, quelle sedie scomode, e ti rendi conto che non li vedrai mai più.
In quel momento capisci che nonostante tutto ti mancherà, ti mancherà quel luogo che ti ha visto cambiare, crescere.
Dentro quelle mura hai pianto, hai riso di gusto, ti sei arrabbiato e hai gioito. Hai conosciuto tante persone, per poi perderle o tenerle al tuo fianco per altri nuovi traguardi, hai imparato cose nuove ed altre non ti sono mai entrate in testa. Hai odiato quel posto, ma lo hai anche amato, e lo ricorderai per sempre.
Non importa quanto odiassi la matematica, non importa quante volte hai ripetuto “non vedo l’ora che finisca”, il tuo cuore si è troppo riempito di ricordi per lasciare andare quel posto.
Così fu il mio ultimo giorno con Dylan.
In ogni attimo, avrei voluto dire: ancora un po'.
Ancora un po' di tempo, ancora un po' di ricordi.
Fotografai con la mente ogni istante, ogni momento di quel giorno, per inciderlo nel mio cuore per sempre e non dimenticarlo mai.
Mi ripromessi di non dimenticare quando mi sporcai le guance con il gelato, e Dylan ci passò il dito sopra per pulirmi, come se fossi una bambina pasticciona.
Chiesi a me stessa di non dimenticare quel momento in cui camminammo mano nella mano per il luna park, proprio come avevo sognato.
Desiderai non dimenticare la sensazione delle sue dita intrecciate alle mie, il calore del suo palmo contro il mio.
Capii che non avrei mai più guardato una ruota panoramica senza pensare ai baci che ci eravamo scambiati lì, mentre le luci del parco lampeggiavano sotto di noi.
Niente, non avrei guardato più niente allo stesso modo, senza di lui.
Neppure il tramonto, perché ora che stavamo seduti sulla sabbia a guardare il sole che si tuffava nell’oceano, sentii che nessun tramonto avrebbe più avuto lo stesso sapore senza di lui seduto accanto a me.
<È stato un meraviglioso ultimo giorno.>
Dissi, soffocando un sospiro stracolmo di tristezza.
<Si.>
Concordò, stringendo appena un po' di più la mia mano.
<Lo è stato davvero.>
Fotografai anche quel momento, lo catturai e lo conservai nella mia scatola dei ricordi mentale, una scatola con sopra tante stelle, una scatola con inciso il suo nome.
Una scatola piena di “ma” e di “se”, piena di promesse che forse non avremmo mai mantenuto, ma che restavano lì, sospese nel tempo.
In quella scatola conservavo il mio “forse un giorno”, e sarebbe rimasto lì finché quel giorno non fosse arrivato, oppure sarebbe sparito insieme ai miei giorni su questa terra.
<Mi va bene, sai?>
La mia voce si mischiò al rumore delle onde, i gabbiani in volo sembrarono cessare il loro stridio per ascoltare le mie parole.
<Va bene se non mi ami, insomma...lo accetto.>
Avrei voluto non doverlo fare, avrei voluto non doverlo accettare, avrei voluto che fosse tutto diverso.
Ma forse è così che doveva andare, forse c’era di meglio in serbo per me, da qualche parte. Anche se io avrei tanto voluto che fosse lui, quel meglio.
<Davvero credi che sia così?>
Sbuffò una risata amara.
<Credi che non ti amo?>
Mi voltai a guardarlo, e fotografai anche quell’attimo. Il tenue colore dorato del sole che gli colorava il volto, i capelli mossi dal vento, le sue labbra piene leggermente arrossate ed il colore dei suoi occhi che era, senza dubbio, il mio colore preferito in assoluto.
<Io...>
Biascicai, incantata da quella vista.
<Beh si, lo credo. Altrimenti perché dovresti andare?>
Si mosse sulla sabbia senza alzare un singolo granello, si posizionò davanti a me con le gambe incrociate e tirò lievemente la mia mano verso di lui per indurmi a girarmi nella sua direzione con tutto il corpo.
<Non ero più tornato allo chalet da quando mia madre se n’è andata, ma lo ricordo come il luogo in cui sono stato più felice. Ti ho portata lì perché vederti in quelle condizioni, così a pezzi, quella notte, mi ha spezzato il cuore. Speravo che potesse guarirti come guariva me quando ero bambino.>
Iniziai a sentire il battito del mio cuore nelle orecchie, batteva veloce, in preda al panico. Si preparava, a quello che temevo, e speravo, stesse per dire.
<Da quando mi hai parlato dei tuoi attacchi di panico, ho comprato libri e letto articoli, per documentarmi, per sapere cosa fare per aiutarti semmai ne avessi avuto uno. Per questo conoscevo l’esercizio del verde.>
Prese un lungo respiro, indurendo lo sguardo, e quando alzò una mano per passarsela tra i capelli notai che tremava.
<Si è scatenato l’inferno dentro di me ogni volta che qualcuno ti toccava, ti guardava o anche solo pronunciava il tuo nome.>
Un nodo stretto mi si formò in gola, ed i miei occhi lasciarono uscire lacrime che mi ero ripromessa di reprimere.
<Perché mi dici tutto questo? Cosa significa?>
Parlai con la voce tremante, lo stomaco sottosopra ed il cuore al galoppo.
Lui si sporse verso di me e mi prese il viso tra le mani, a quel punto notai che anche dai suoi occhi scendevano delle lacrime.
<Significa che ti amo, cazzo.>
Mi mancò il fiato per un attimo, quelle parole rimbombarono nella mia testa, trasformandosi in un eco infinito.
<Ti amo dall’istante in cui ti ho vista dietro quel bancone, intenta a danzare con le dita sui tasti del tuo computer. Eri così bella, persa nei tuoi pensieri, mentre sorridevi di fronte a qualsiasi cosa stessi scrivendo. Sembravi così luminosa, così pura, ed io ho pensato che Dio mi aveva finalmente mandato un angelo per guarire la mia anima.>
Trattenni ancora il fiato, quasi in apnea, mentre le sue parole mi entravano dentro vorticando, facendo crescere fiori ovunque.
<Non ho potuto evitarlo Aly, mi dispiace. Non ho potuto evitare di innamorarmi di te.>
Iniziai a scuotere la testa, mentre i nostri visi erano ormai bagnati di lacrime ed il sole era ormai sparito nell’oceano.
<Perché pensi che avresti dovuto evitarlo?>
<Perché sono un mostro, sono una fottutissima bestia che semina solo caos e distruzione.>
<No, questo non è vero, tu...>
Provai a calmarlo, poggiandogli le mani al petto.
<Lei si è uccisa!>
Urlò, allontanandosi da me.
<Si è uccisa, ed è solo colpa mia.>
Cercai di prendere le sue mani fra le mie, ma tremavano troppo mentre scuoteva la testa e se le passava sul viso. Possibile che parlasse di sua madre? Forse con “se n’è andata” intendeva dire che è morta.
<Chi?>
Ero confusa, ero così frastornata da non capire più niente.
<Kelly.>
Disse, piano, ed io mi avvicinai un po' di più, mentre il peso di quella confessione si adagiava sul mio cuore.
<Io credevo fosse felice, credevo che le piacesse la sua vita, la nostra vita. Non me ne sono accorto, io...>
Si prese la testa fra le mani, ed il mio cuore diventò piccolo ed iniziò a farmi male.
<Non mi sono accorto di quanto in realtà fosse infelice, di quanto le pesava questa vita, di quanto fosse a pezzi il suo cuore. Avrei dovuto farlo, avrei dovuto capirlo e salvarla. Lei mi ha salvato, ma io non sono riuscito a fare lo stesso.>
Il peso di quelle parole mi piombò addosso come una bomba. Per quanto tempo si era consumato credendo che fosse colpa sua? Per quanto si era lasciato affogare in quel mare di colpe, che in realtà non gli appartenevano? Quanto gli faceva male quella ferita?
Mi mossi e mi inginocchiai davanti a lui, accarezzandogli i capelli mentre lui lasciava uscire lacrime che conservava da tempo.
<Dylan, non è colpa tua, hai capito? Ci sono cose nella vita che non possiamo prevedere.>
Ripensai a mia madre, a come mi ero data la colpa per anni.
Io, come lui, mi ero sentita responsabile per qualcosa che non avrei potuto prevedere, e neppure evitare.
Certe cose accadono e basta, è il piano che è stato scritto per noi, e siamo impotenti di fronte a certe forze.
A volte non ci resta altro che accettare ciò che capita, perché il mondo è troppo più grande di noi, siamo solo formiche, e siamo fragili.
Alzò lo sguardo su di me, e vedere quei suoi bellissimi occhi arrossati dal pianto mi spezzò il cuore in tanti minuscoli pezzetti.
<Lei aveva una ferita che io non ho visto Aly, i suoi occhi erano intrisi della stessa tristezza che vedo nei tuoi.>
Mi immobilizzai, incapace di reagire, non sapevo che fare, non sapevo che dire. Avrei soltanto voluto prendere il suo dolore, prenderlo tutto e gettarlo via tra le onde. Avrei voluto farlo sparire per sempre, così che lui potesse essere felice.
<Dal primo momento in cui ti ho vista, ho riconosciuto in te le sue stesse cicatrici, ed ho desiderato salvarti.>
Gli asciugai una lacrima con il pollice, indugiando sulla sua guancia, accarezzandolo appena.
<Ho desiderato salvarti da quel dolore che ti porti dentro, dal mare in tempesta in cui affoghi ogni giorno. Volevo salvare te, almeno te.>
Piansi ancora, scuotendo la testa, incapace di parlare. Avrei dovuto dirgli che non serviva che mi salvasse, che ero io a voler salvare lui, che avrei voluto fare di tutto pur di uccidere quel suo dolore.
<Ma non posso, Aly. Io non posso salvarti.>
Poggiò una mano tremante sul mio viso, mentre entrambi lasciavamo scendere le nostre lacrime. Le lacrime di chi era troppo schiavo del dolore, lacrime che pesavano come macigni, che ti tagliavano il volto.
<Devo prima salvare me stesso, devo trovare il modo per perdonarmi.>
Sorrise, ed io feci lo stesso, mentre ci perdevamo l’uno negli occhi dell’altra, mostrando lacrime che non avremmo mai mostrato a nessun altro. Erano come un segreto, un segreto che sarebbe stato solo nostro, per sempre.
<Ti amo, stellina, più di quanto credevo possibile. Ma non posso darti ciò che meriti adesso, devo prima guarire me stesso.>
Mi gettai su di lui, avvolgendogli le braccia al collo, stringendolo forte.
<Ti amo anch’io.>
Gli sussurrai.
<Ma devo lasciarti andare.>
Quelle parole mi tagliarono come cocci di vetro, lo sentii stringermi di più ed affondare il viso tra i miei capelli. Parlò soffocato dal pianto, ed io capii quanto quel dovere che credeva necessario lo lacerasse dentro.
<Lo so.>
Lo capivo, capivo quella sua scelta e la trovavo giusta. Mi faceva male, mi bruciava in gola come veleno, ma lo capivo.
Mi ero sempre sbagliata, non è vero che due cuori spezzati ne formano uno sano, eravamo entrambi troppo rotti per amarci.
<Ci ritroveremo, un giorno.>
Disse, mentre io assaporavo il suo profumo, e me lo cucivo addosso come fosse il mio.
<Da qualche parte, sotto un cielo stellato.>
Mi staccai dal suo collo e lo guardai negli occhi.
<Me lo prometti?>
Dissi tra i singhiozzi, accarezzandogli il viso.
<Te lo prometto.>
Rispose, dandomi un ultimo bacio.
Un bacio che non sapeva di addio, ma aveva il sapore di una promessa.
A volte amare significa lasciare andare, a volte c’è semplicemente troppo che il tempo non può cancellare.
C’erano troppe ferite sulla nostra pelle, ferite ancora aperte, ancora sanguinanti.  
Non puoi salvare nessuno, se prima non salvi te stesso, ed in quel momento mi fu chiaro.
Io e Dylan eravamo come due pezzi di vetro troppo scheggiati, per quanto lo volessimo non saremmo mai riusciti a combaciare. Dovevamo prima levigare i nostri bordi, renderli meno spigolosi, meno taglienti.
Affondare nel dolore è un po’ come entrare nel labirinto del Minotauro: ti perdi, ti disperi, pensi di non farcela.
Non puoi trovare l’amore dentro quel labirinto, è troppo pieno di svolte e di strade senza uscita.
Per amare davvero qualcuno, devi prima uscire dal labirinto.
Devi sentire la voglia di vivere, la gioia di sorridere, ed il coraggio di non mollare.
Ognuno di noi è prigioniero del proprio labirinto, ognuno il suo, diverso, costruito sulla base delle nostre paure.
Se non esci dal labirinto, non sarai mai in grado di amare.

Come amano le stelleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora