Due metà di un cuore spezzato

1.6K 60 11
                                    

Mi stiracchiai stropicciandomi gli occhi, la luce intensa del sole che entrava dalla finestra mi dava fastidio, mi aveva svegliata.
Sbadigliai, assonnata, poi mi misi sul fianco, cercando di riprendere sonno, non volevo ancora alzarmi. Ma quando sentii un respiro caldo sul mio viso aprii gli occhi di scatto.
Io e Dylan eravamo faccia a faccia, vicini, mentre lui dormiva beato.
Mi ero quasi dimenticata della notte prima, del fatto che ci eravamo addormentati nello stesso letto, della sua mano nella mia. In un primo momento mi presi uno spavento vedendo qualcuno accanto a me, ma poi mi presi qualche minuto per guardarlo. Aveva un’espressione così rilassata che mi dava pace, sembrava quasi accennare un sorriso, i suoi lineamenti mi parvero così perfetti in quel momento.
Per un attimo mi domandai come sarebbe stato svegliarsi così ogni mattina, con lui così vicino, ma cacciai in fretta quel pensiero.
D’improvviso notai la sua espressione cambiare ed i suoi occhi aprirsi lentamente, anche loro infastiditi dalla luce del sole, proprio come i miei. Mi rigirai di scatto a pancia in su, fingendo di stiracchiarmi come se mi fossi appena svegliata.
<Buon giorno stellina.>
Disse, con la voce ancora assonnata, quasi sussurrando.
<Oh ciao, avevo dimenticato che tu fossi qui.>
Risposi, finta.
<Ma se te ne stavi qui a guardarmi dormire, a un centimetro dalla mia faccia.>
<Cosa? Devi averlo sognato.>
Mi guardò per un attimo, accennando un sorriso.
<Si certo. Comunque, io voglio fare colazione, tu vieni?>
Non avevo voglia di alzarmi, ma la colazione era il mio momento preferito della giornata, in più il mio stomaco brontolava già da un po', perciò lo seguii.
Uscimmo dalla camera da letto, rendendoci conto che probabilmente dormivano ancora tutti, in casa regnava il silenzio. C’eravamo solo noi.
Arrivati in cucina lui aprì il frigo, con un’espressione di riflessione.
<Non abbiamo granché a disposizione, stellina.>
Mi disse, voltandosi verso di me che intanto mi ero appoggiata al tavolo della cucina, ma volevo costatare con i miei occhi.
<Spostati, guardo io.>
Dissi, sorpassandolo.
<Accomodati.>
Arrivata davanti al frigo mi resi conto che aveva ragione, c’erano solo delle birre, della coca cola, qualche bottiglietta d’acqua e della vodka. Come aveva fatto Ellie a non portare nulla per la colazione? Sapeva che era il mio pasto preferito, non glielo avrei perdonato facilmente.
<Non c’è davvero nulla, che cavolo, adesso come faccio?>
Dissi, richiudendo il frigo, affranta.
<Calmati stellina, non si muore mica, mangeremo più tardi.>
Replicò lui, per niente dispiaciuto.
<Ma la colazione è il mio pasto preferito, il mio momento preferito della giornata.>
Dissi triste, rendendomi conto che forse stavo un po' esagerando, ma era vero.
Dylan si alzò dalla sedia in cui intanto si era seduto, quasi sbuffando, ed io capii che forse lo stavo infastidendo con tutti i miei discorsi sulla colazione.
<D’accordo, andiamo.>
Disse serio.
<Andiamo dove?>
<A fare colazione, c’è un bar non lontano da qui.>
Lo guardai perplessa.
<Stai scherzando?>
<Vuoi fare colazione o no? Ti vedo disperata, non vorrei che ti venisse un colpo dopo aver perso una colazione.>
<Ma dici sul serio?>
Gli domandai nuovamente, dubbiosa, non capivo se cercava di prendersi gioco di me come sempre.
<Si, dico sul serio, e ti conviene sbrigarti prima che ci ripensi.>
Quasi mi misi a saltare dalla gioia, un giorno senza colazione per me era un giorno perso, mi venne quasi voglia di abbracciarlo ma lasciai perdere. Corsi a mettermi le scarpe, presi il cellulare, i soldi e le chiavi che Ellie aveva affidato a me perché lei era davvero sbadata, ed ero pronta per andare.
Uscita da casa notai la sua moto parcheggiata all’ombra, lui ci stava appoggiato aspettandomi, con gli occhiali da sole ed il casco in mano.
<Tieni.>
Disse serio, porgendomi il casco.
<Ma ne hai soltanto uno? E tu come farai?>
<Non preoccuparti stellina, se facciamo un incidente ed io non ne esco vivo potrai dire che mi sono sacrificato per te.>
Disse ridendo, mentre saliva sulla moto.
<Cretino.>
Dissi, colpendolo piano sul braccio mentre mi scappava un sorriso, poi salii anch’io aggrappandomi a lui.
Questa volta stare su quella moto non mi pesò come la prima volta che c’ero stata.
Mi persi ad ammirare i paesaggi che ci circondavano, lunghi tappeti di verde, fiori, alberi e prati. Mi lasciavo accarezzare dal vento che faceva muovere i miei capelli, che sciolti ricadevano sulle mie spalle, e mi lasciavo riscaldare dal caldo sole del mattino.
Quando arrivammo al bar mi sentivo rilassata, felice di aver superato la mia paura per la moto. Il bar era quasi isolato, piccolo, eravamo gli unici affamati presenti.
Appena entrati mi resi conto che era pieno di vetrate da cui si potevano ancora ammirare i paesaggi che avevo visto lungo la strada, e questo fece allargare un ampio sorriso sul mio volto.
<Come conosci questo posto?>
Gli domandai, mentre sceglievamo un tavolo da cui c’era un’ottima visuale.
<È una lunga storia.>
Rispose, voltandosi a guardare fuori una volta seduti. Decisi di non domandare oltre, magari non voleva parlarne, così come io non volevo parlare della mamma, perciò alla fine mi concentrai sulla colazione.
Pancake con gocce di cioccolato, come sempre.
Non appena arrivarono sotto al mio naso ne assaporai l’odore, li guardai innamorata, quasi battendo le mani per la gioia. Dylan invece ordinò un caffè ed una brioche.
<Pancake con gocce di cioccolato, proprio come i bambini.>
Disse ridendo, prendendomi in giro, irritandomi.
<Beh, sempre meglio di te.>
Gli risposi, poi mi gustai il primo morso della mia colazione da bambini. Era deliziosa.
<Che c’è che non va nella mia colazione?>
Domandò, mescolando il suo caffè.
<Tipo tre persone su quattro fanno una colazione del genere. Sei scontato.>
Sorrisi leccandomi i baffi, consapevole di averlo stuzzicato.
<E noioso.>
Aggiunsi, soddisfatta, versando altro sciroppo sui miei pancake.
<Ah si?>
Mi guardò serio, ed io ricambiai il suo sguardo senza avere paura, senza battere ciglio.
<Si.>
<Sbrigati a finire, allora.>
<Perché dovrei? Abbiamo fretta?>
Pensai di averlo infastidito a tal punto da volermi riportare a casa e non parlarmi mai più. Ma io dovevo godermi la mia colazione, non mi sarei abbuffata per lui, poteva aspettare, non mi importava.
Mi guardò ancora serio, ed io continuai a sorreggere il suo sguardo senza scompormi, aspettando una risposta alla mia domanda.
<Voglio portarti in un posto.>
Continuai a guardarlo interrogativa.
<Così vediamo se avrai ancora il coraggio di dire che sono noioso.>
Era una sfida, ed io adoravo le sfide. Gli sorrisi e lui ricambiò, entrambi competitivi, senza intenzione di arrenderci, ma quasi complici.
Alla fine mi affrettai davvero a finire, ma non perché l’aveva chiesto lui, ero solo curiosa di vedere quel posto. Uscimmo dal bar e salimmo di nuovo sulla moto, ero scalpitante. Mi sentivo quasi emozionata, tutto quel mistero e l’aria di sfida mi divertivano da morire. Sulla moto avrei quasi voluto mettermi in piedi e allargare le braccia, ma non lo feci perché in fondo un po' di paura ce l’avevo ancora.
Dylan si fermò sul bordo della strada, ed io mi chiesi che ci fosse di divertente da vedere lì, c’erano solo alberi.
<Scendi.>
Disse serio, a me scappò una risata, sperando scherzasse. Mi sentivo quasi delusa, avevo grandi aspettative.
<Cosa? Qui? Ma non c’è niente qui.>
<Dio stellina, perché non ti fidi di me e basta?>
Lo accontentai e scesi dalla moto, mentre lui la spostò più avanti, sotto un albero all’ombra.
<Seguimi.>
Si infilò in mezzo agli alberi, io rimasi per un attimo lì ferma a domandarmi se avrei davvero dovuto seguirlo, iniziavo già a pentirmi di aver acconsentito a questa cosa.
Ma dove cavolo mi aveva portata?
Lo seguii, facendomi spazio tra i rami, non vedendolo più.
<Ehi, aspettami.>
Gli urlai, ma non udii alcuna risposta.
Quando finalmente notai i rami diminuire vidi la luce, spostai l’ultimo ramo e mi si aprì davanti un panorama mozza fiato.
Eravamo su una specie di montagnetta, eravamo in alto, c’era del verde ovunque e un venticello tiepido che mi accarezzava la pelle.
<Benvenuta nel mio paradiso!>
Esclamò, allargando le braccia.
<È bellissimo.>
Risposi sorpresa, sorridendo quasi imbarazzata. Avrei dovuto fidarmi fin dall’inizio.
<Guardi un’altra volta nella direzione sbagliata stellina.>
<Eh?>
<È qui il bello.>
Disse, indicando giù, nello strapiombo, lì dove non avevo avuto il coraggio di avvicinarmi. Notando la mia titubanza si avvicinò lentamente, porgendomi le mani.
<Vieni, non aver paura.>
Decisi di fidarmi e mi appoggiai a lui, ci avvicinammo allo strapiombo e mi accorsi che non era così alto come pensavo, perché ai suoi piedi si stendeva un maestoso bacino d’acqua.
<Oddio, ma è...>
Dissi, così meravigliata da non finire la frase.
<Un lago,si. E noi ci salteremo dentro.>
<Cosa? No, sei pazzo!>
<Adesso chi è quella noiosa?>
Nel frattempo aveva iniziato a togliersi la maglietta, scoprendo pettorali scolpiti e un tatuaggio sulle costole. Una costellazione.
Rimasi a guardarlo per un attimo, perdendomi, senza riuscire a dire una parola.
<Prontoo!>
Mi richiamò lui.
<Non ho il costume.>
Dissi soddisfatta, credendo di poterla scampare così.
<Neanch’io.>
Rispose sfilandosi anche i jeans, rimanendo completamente in mutande davanti ai miei occhi. Mi voltai di scatto, imbarazzata.
<Tranquilla stellina, non sei mica la prima che si spoglia davanti a me.>
Mi irritai di fronte a quella sua risposta, non avrei mai lasciato che pensasse che ero una che si tira indietro. Come sempre voleva giocare, ma io sapevo giocare meglio.
Mi voltai nuovamente verso di lui, iniziando piano e sbottonarmi i pantaloncini e sfilandoli via.
<Rifatti gli occhi, fiorellino.>
Lo provocai, sfilandomi anche la canottiera, rimanendo in intimo davanti ai suoi occhi increduli. Avevo vinto, non credeva che l’avrei fatto.
Sorrise di mezzo lato, studiando il mio corpo, senza togliermi gli occhi di dosso si avvicinò porgendomi un’altra volta la mano.
<Vogliamo andare?>
Ci tenemmo per mano, sorridendo entrambi soddisfatti, forse era stato più che altro un pareggio. Ci allontanammo dallo strapiombo di qualche passo, prendendo una rincorsa, poi saltammo.
Sentivo il vento sulla pelle, i capelli alzarsi dalle mie spalle, il vuoto sotto i piedi, ma la sua mano sempre salda alla mia, non mi lasciò finché non arrivammo in acqua.
L’acqua fredda risvegliò tutti i miei muscoli, mi lasciai galleggiare nell’attesa di risalire in superficie dopo il tuffo, era più profondo di quanto mi aspettassi. Intanto il mio cuore batteva forte per l’adrenalina, ma io ero felice. Ne era valsa la pena.
Una volta risaliti in superficie ci godemmo entrambi un lungo respiro, assaporando nuovamente l’aria. Lui mi guardava, mentre io nuotavo lentamente, lasciandomi cullare dall’acqua. Anche io lo guardai, ogni tanto, di sfuggita, senza farlo notare.
Non l’avevo mai guardato in quel modo, il mio stomaco si restrinse mentre una strana consapevolezza si faceva strada tra i miei pensieri. Vedevo perfezione in tutti gli angoli del suo corpo, avrei voluto fissarlo incantata. Lui se ne stava lì fermo a guardarmi ed io avrei voluto fare lo stesso, avrei voluto starmene lì per tanto tempo a guardarlo. Era così dannatamente bello, con il suo corpo perfetto, con i capelli bagnati che gli scivolavano dolcemente sulla fronte, con i suoi meravigliosi occhi verdi.
<Come conosci questo posto?>
Chiesi, per rompere il silenzio e per distrarmi dai suoi addominali.
<È una lunga storia.>
Ci risiamo.
<Sei così misterioso che mi irriti.>
Sorrisi scherzosamente, non volevo costringerlo a raccontarmi cose di cui non voleva parlare, ma così era difficile iniziare una conversazione, non sapevo nulla di lui.
<D’accordo, facciamo un gioco.>
Disse, avvicinandosi a me di qualche passo, ma pur sempre alla giusta distanza di sicurezza.
<Che tipo di gioco?>
<Lo chiameremo “gioco della verità”, l’ho appena inventato.>
Mi fece sorridere, ma allo stesso tempo mi domandai se fosse il caso di iniziare un gioco della verità con lui.
<Come funziona?>
Gli chiesi, decidendo di rischiare e vedere come andava a finire.
<A turno diciamo qualcosa su di noi, qualunque cosa, basta solo che sia vera. Non si può mentire nel nostro lago.>
La parola nostro mi fece trasalire. Trovavo strano che l’avesse usata, ma allo stesso tempo mi riscaldava il cuore. In fondo era davvero un momento nostro, eravamo solo noi, un lago e i nostri pensieri. Era strano pensare che al mondo poteva esistere qualcosa di nostro, ma mi faceva battere forte il cuore quella parola.
<D’accordo. Inizia tu.>
Gli lasciai la parola, prima di dire una mia verità volevo sentirne una sua, per capire quanto in là ci saremmo spinti.
<Okay, mmh, fammi pensare….ce l’ho.>
Fece una pausa, quasi volesse creare suspense.
<La prima volta che ho fatto sesso avevo tredici anni, era la sorella di un mio amico, e aveva cinque anni più di me.>
Ah, parliamo di questo tipo di verità. Scoppiai a ridere, perché in effetti il pensiero mi divertiva. Immaginai un piccolo Dylan di tredici anni, goffo e impacciato, fare sesso con una diciottenne che ne sapeva sicuramente più di lui. Mi domandai per un attimo perché una ragazza di quell’età facesse sesso con un tredicenne e non con un suo coetaneo, ma poi pensai che probabilmente era bello da morire anche a tredici anni. Come biasimarla, in fondo.  
<Tocca a te stellina.>
<Okay, dato che siamo in argomento, la prima volta che ho fatto sesso è stato un disastro. È durato pochissimo e ho dovuto fingere che mi fosse piaciuto da pazzi, per non farlo rimanere male. Lui era soddisfatto, io non mi ero neanche accorta che avessimo iniziato.>
Scoppiò a ridere e non potei fargliene una colpa, faceva davvero ridere.
<Avresti dovuto mollarlo all’istante.>
Disse, tra una risata e l’altra.
<Io l’amavo.>
Dissi, tornando seria, lui fece lo stesso.
<Cos’è successo poi? Come mai avete rotto?>
Non avevo capito che nel gioco fosse consentito anche fare domande, ma non obbiettai, questo mi permetteva di fare a mia volta qualche domanda a lui non appena ne avessi avuto l’occasione.
<A volte l’amore non basta.>
Decisi di non scendere nello specifico, non avevo mica voglia di raccontargli tutta la storia sul mio ex, volevo altre sue verità.
<Tocca a te.>
Lo riportai a concentrarsi sul gioco.
<Non ho mai conosciuto mio padre, mia madre non c’era mai, sono cresciuto con i miei zii che ormai considero i miei genitori.>
La buttò lì, come se mi avesse appena confidato che ha un cane di nome Lily. Io rimasi zitta per un attimo, guardandolo, rabbuiandomi. Non volevo forzarlo a parlare di qualcosa che probabilmente gli faceva ancora male, ma volevo sapere, volevo conoscere quella sua sfumatura.
<Dov’era tua madre?> Domandai incerta.
<Una verità alla volta stellina. Tocca a te.>
Capii che se volevo saperne di più su di lui dovevo fare in modo che si fidasse di me, e per farlo dovevo dimostrargli che avevo anch’io delle verità scomode.
Andai sott’acqua, per rinfrescarmi prima di parlare di una delle mie verità più scomode. Quando riemersi lui era lì ad aspettare una mia risposta, presi un lungo respiro e mi feci coraggio.
<Sono stata rinchiusa in casa per un anno. Ho sofferto d’ansia e di attacchi di panico, seguiti da insonnia e disturbi alimentari. Uscire di casa mi terrorizzava, preferivo starmene lì a leggere, per evitare gli attacchi di panico. Mangiavo abbuffandomi, solo perché volevo correre a vomitare. Vomitare mi faceva stare bene, quando mi inginocchiavo davanti il water per strapparmi lo stomaco ero quasi felice. Mi piaceva quella sensazione, come se mi liberassi, come se il dolore che provavo dentro diventasse finalmente reale e lo sentissi anche fuori.>
Ecco, verità nuda e cruda.
Presi aria, non mi ero accorta di aver parlato praticamente in apnea. Da una parte mi sentivo più leggera, era la prima volta che lo dicevo a qualcuno, a parte Ellie che ovviamente c’era, non lo sapeva nessun altro. Era bello essere riuscita finalmente a dirlo ad alta voce, ma farlo mi aveva provocato una fitta di dolore al petto.
Per un primo momento lui non disse nulla, rimase lì a fissarmi, pensai di essere stata troppo diretta e di averlo spaventato.
Sorrisi imbarazzata, cercando di rompere il silenzio, allargai le braccia e dissi:
<Questa sono io. Anzi, ero io, adesso sto bene.>
Mentii, anche se era solo una mezza verità, stavo meglio, ma non bene. Lo dissi per fargli capire che non doveva sentirsi in imbarazzo o trattarmi come se potessi rompermi.
<È successo perché hai perso tua madre?>
Tremai udendo quella domanda, non avrei voluto rispondere, lui non aveva risposto alla mia domanda perciò potevo farlo anch’io. Ma poi pensai che se non avessi iniziato ad aprirmi per prima lui non avrebbe mai fatto altrettanto, ed io volevo saperne di più.
<In verità non è solo quella la fonte del mio dolore. Ci sono state altre cose, prima di perdere la mamma, che mi hanno fatto molto male. Quella è stata solo l'ennesima prova che la felicità non è per tutti. Se sei destinato a soffrire, in un modo o nell’altro il dolore verrà sempre a cercarti, alla fine non ti resta più niente da fare se non accoglierlo e diventare parte di esso.>
Mi guardò per un attimo, ma poi rilassò il viso. Io capii che quella risposta gli era bastata e che non aveva intenzione di domandare oltre, tirai un sospiro di sollievo, non volevo parlarne ancora.
<Mia madre si drogava, mi lasciava da mia zia e spariva anche per giorni. Alla fine non abbiamo avuto più sue notizie, così sono rimasto con i miei zii che mi hanno cresciuto come un figlio.>
Lo disse di nuovo con calma, come se quelle parole fossero nulla, come se fosse normale. Ma per me quelle parole non erano nulla, tremarono dentro di me.
<Hai saputo più niente di lei?>
Forse non voleva parlarne, perché si girò a guardare altrove evitando il mio sguardo.
Ma stavolta doveva rispondere, io l’avevo fatto, mi ero aperta con lui, doveva fare lo stesso.
<Oh si, si è disintossicata.>
Fece una pausa, ma continuò ancora a guardare in un’altra direzione.
<Si è sposata e ha tre figli. Ma a me non importa, io ho mia zia. Non ho bisogno di una madre che probabilmente neanche si ricorda della mia esistenza, ne ho già una che mi ama davvero.>
Si girò a guardarmi stavolta, ed io mi ritrovai senza nulla da dire. Quella storia era così triste, ma mi rincuorò sapere che nonostante tutto aveva qualcuno che lo amava.
Non riuscii a trovare nessuna parola di conforto, né un’altra domanda da rivolgergli, perciò decisi di dire un’altra verità, anche se non me l’aveva chiesta, così da mettere sul tavolo tutti i nostri scheletri.
<Mio padre è bipolare.>
Rimasi zitta, lui fece lo stesso, ci guardammo e basta. Poi decisi di approfondire.
<Gli è stata diagnosticata prima che morisse la mamma, ma con lei la teneva sotto controllo, quando poi se n’è andata lui ha perso la sua ancora. A volte sta bene, altre male. A volte ti urla contro senza motivo, altre volte non ti parla, poi si comporta come se fosse la persona più felice del mondo. Vivere con una persona affetta da bipolarismo è una cosa che non auguro a nessuno, ma con il tempo ti abitui a sopportare tutto questo.>
Mi fissò, poi si avvicinò lentamente a me, facendo muovere tutta l’acqua intorno a noi.
<Tocca a me.>
Parlò a metà strada, senza dire nulla riguardo a ciò che gli avevo appena detto. Non seppi se esserne felice o dispiaciuta, magari non gliene importa niente,pensai.
Si fermò a qualche centimetro da me, inspirando ed espirando, quasi fosse in tensione.
<Adesso più che mai ho voglia di baciarti.>
Il cuore iniziò a martellarmi nel petto, le tempie mi pulsarono, mi sentii avvampare e fui sicura di essere arrossita.
La mia testa urlò prepotente.
NO.
Ma il mio cuore cantò più forte.
SI.
Forse me ne sarei pentita, forse gli avrei dato solo ciò che voleva, forse sarei diventata una delle tante, ma in quel momento non mi importava più. Lo volevo. Volevo che mi baciasse, qui e ora. Lo volevo perché quel giorno, grazie a lui, avevo sorriso, e non solo con le labbra, ma anche con il cuore.
Volevo lasciarmi andare.
Mi avvicinai a lui, cancellando quei pochi centimetri che ci separavano, senza parlare, consapevole di avergli lasciato intendere che non mi sarei opposta.
Mi prese il viso tra le mani, e lentamente poggiò le sue labbra sulle mie.
Le sento.
Morbide e calde.
Sento il suo profumo, sento il suo respiro tra un bacio e l’altro, sento la dolcezza con cui mi bacia.
Mi sento viva, mi sento a casa.
Fu in quell'istante che lo capii.
Non volevo ammettere a me stessa che mi stavo innamorando di lui non perché credevo che fosse un puttaniere, ma perché non volevo rovinarlo.
Io ero divorata dal dolore, ero parte di esso, ero un cumulo di disperazione e caos. Ero rotta.
Non volevo rompere anche lui, non volevo portarlo a fondo con me, non volevo spezzare il suo cuore così come lo era il mio. Ovunque io andassi portavo il dolore con me, ce l'avevo attaccato alla schiena, dentro le ossa, sotto ogni centimetro di pelle. Era come una malattia che si espande, e se lui stava con me si sarebbe contagiato, si sarebbe condannato ad una vita di sofferenze. Questo significava stare con me. Era già successo in passato, le persone soffrono al mio fianco, io non sono in grado di regalare felicità o serenità.
Non accettavo di potermi innamorare di lui, non accettavo che lui potesse innamorarsi di me.
Non poteva amarmi, una come me non si può amare, anche se ci riuscisse smetterebbe dopo essersi accorto del casino che in realtà ero.
Non accettavo di potermi innamorare di lui, perché in realtà lo ero già dalla prima volta che ho visto quei maledettissimi occhi verdi, ma non volevo romperlo. Non volevo attaccargli quel dolore addosso, non volevo trascinarlo giù con me, perché quel posto non è per tutti. Lui non meritava di stare lì, lui meritava il sole e i sorrisi. Non meritava quel dolore, quell'abisso buio, perché da lì non se ne esce più.
Non volevo che diventasse come me, volevo che rimanesse sempre così, il ragazzo dagli occhi verdi di cui, ahimè,  mi sono innamorata.
Ma in quel momento, per un istante, pensai che forse non eravamo poi così diversi. Iniziai a credere che forse eravamo rotti entrambi allo stesso modo, e che insieme potevamo ricostruirci a vicenda.
Come due metà di un cuore spezzato, uniti ne formavamo uno intero.

Come amano le stelleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora