Era come se tutto avesse cessato di esistere lì.
Come se le foglie non si muovessero più con il vento, come se il cielo cambiasse colore, come se il sole non osasse spingersi fino a lì.
Qualcosa mi si attanagliò allo stomaco mentre osservavo quel grande cancello, lo stesso che era ancora vivido nei miei incubi.
Quel ferro consumato dalla ruggine, le sue estremità appuntite, le lettere incise su quella targhetta un tempo decorata con motivi floreali, ormai grigia e vecchia come tutto ciò che c’era oltre quelle sbarre.
Life house
Mi chiesi come potesse un luogo del genere portare quel nome.
Osservavo quei grandi cancelli e mi sembrava quasi di percepire la vita uscire dal mio corpo.
Le mani mi tremavano appena, mi sudavano, il cuore batteva così forte che ne sentivo il rimbombo nella testa, le mie gambe rifiutavano ogni mio ordine, erano bloccate.
Ricordavo tutto, tutto ciò che c’era oltre quel ferro arrugginito. Ogni erbaccia nelle aiuole, ogni parete grigia, ogni porta scricchiolante, le urla e i sussurri.
Avevo detto a Dylan che mi sentivo pronta ad affrontare il mondo, ma in quel momento, in piedi davanti a quei cancelli, una vecchia amica mi prese per mano.
La paura.
Non ero pronta, forse non lo sarei mai stata. Far visita a papà era il primo passo che mi ero imposta per poter riprendere in mano la mia vita, per affrontare il mondo.
Ma il mio corpo si era paralizzato, e la mia mente ripercorreva con terrore tutti gli attimi trascorsi dentro quell’edificio dove la luce del sole non entrava mai.
Domani, dissi a me stessa.
Avrei fatto quel primo passo domani.
Tornare in una casa vuota mi aveva fatto uno strano affetto.
Per la prima mezz’ora ero stata incapace di muovermi, avevo chiuso la porta alle mie spalle e mi ero lasciata scivolare a terra. Ero rimasta lì a fissare la stanza davanti a me per tutto quel tempo.
Mi ero concessa un ultimo giorno, solo un altro giorno e poi sarei andata a riprendere Noah e tutto sarebbe tornato piano alla normalità.
Quella casa però era troppo vuota per me, ed io mi sentivo troppo sola, osservata da quel silenzio assordante. Per questo motivo avevo accettato l’invito di Dylan quella sera, e mentre mi davo l’ultima occhiata allo specchio prima di uscire mi sentivo già meglio.
Quando lo vidi, appoggiato alla sua moto davanti casa mia, con dei pantaloni neri e un giubbotto di pelle a coprire la maglia bianca, capii che non avrei potuto scegliere medicina migliore.
Il suo sorriso si illuminò non appena mi vide chiudere la porta di casa.
Avevo optato per un jeans ed una felpa grigia, avevo legato i miei capelli in una treccia e non mi ero neppure truccata. Non ero un granché, a parer mio, ma il suo sguardo su di me sembrava dire il contrario.
Quando arrivai di fronte a lui mi prese per i fianchi e mi baciò come se aspettasse quel momento già da troppo, poi mi passò un casco.
<Dove andiamo?>
Salì sulla moto e mi regalò un sorrisetto compiaciuto.
<Lo vedrai, ma non sono sicuro che ti piacerà.>
Salii anch’io dietro di lui e mi misi il casco.
<Che dovrebbe significare?>
Indossò anche lui il suo casco, poi girò la chiave ed il rombo del motore mi fece sussultare, convincendomi a stringermi a lui.
<Ti porto a fare un giro nel mio mondo stellina.>
Partì senza darmi il tempo di rispondere.
Arrivammo in una strada chiusa al traffico, parzialmente buia, una carreggiata così grande da contenere tre auto allineate.
Il silenzio da cimitero che inizialmente ci accolse fu rimpiazzato dai rombi di grosse moto e dai boati di urla e applausi.
<Dove siamo?>
Domandai, allentando appena la presa dai suoi fianchi.
<Ad una corsa.>
Continuò ad avanzare e i rumori diventarono sempre più vicini, sempre più assordanti.
Non ebbi neppure il tempo di chiedere ulteriori informazioni, davanti a noi una folla rumorosa applaudiva e urlava incoraggiamenti, mentre una decina di ragazzi su grosse moto come la sua si posizionavano su una linea di partenza immaginaria.
Si avvicinò alla folla e mi fece segno di scendere dalla moto, io lo feci sfilandomi il casco e continuando a guardarmi intorno, mi ci volle qualche minuto per realizzare.
<Tu...>
Balbettai.
<Tu corri...qui...con la moto...tu...>
<A che serve saper guidare una di queste se non puoi guadagnarci qualcosa?>
Anche se il suo viso era nascosto dal casco, lo vidi farmi l’occhiolino, io probabilmente sbiancai.
<Non puoi...non puoi farlo.>
<Perché no?>
<Questo è...illegale.>
Lo sentii ridere.
<Ti stai preoccupando per me?>
Incrociai le braccia al petto, la verità era che l’idea mi terrorizzava.
<Non starò qui a guardarti mentre ti suicidi.>
Si tolse il casco con una facilità che gli invidiavo, dato che io non riuscivo a farlo altrettanto facilmente, mi prese per i fianchi e mi attirò a sé dandomi un bacio che mi fece perdere il fiato e le parole.
<Non preoccuparti stellina, sono il migliore qui, non ho mai perso una corsa e non ho mai rischiato la morte. È facile come fare sesso, e tu sai quanto mi riesca bene.>
Mi staccai da lui e lo colpì scherzosamente sul braccio, nel frattempo lui si rimise il casco.
<Presuntuoso.>
<Va’ a cercarti un posto con un’ottima visuale e guardami vincere, più tardi voglio ritirare il mio premio.>
<E quale sarebbe questo premio?>
<Un accesso esclusivo per l’attrazione che si trova in mezzo alle tue gambe.>
Sorrisi.
<Cretino.>
Senza dire altro partì per posizionarsi insieme agli altri, io mi avvicinai alla folla per trovare un posto con un’ottima visuale, come aveva detto lui.
La folla iniziava a spostarsi su una piccola collina che permetteva di vedere dall’alto quella che immaginai fosse la pista su cui si sarebbe svolta la corsa, sgomitando riuscii a farmi spazio tra la gente e trovai un buon posto in prima fila.
Dietro di me delle ragazze si lasciarono sfuggire un grido quando Dylan si affiancò agli altri ragazzi, ed io sorrisi quando sentii una di loro dire:
<Eccolo è lui, te l’avevo detto che sarebbe venuto.>
E l’altra risposte:
<Quanto vorrei ritrovarmi nel letto di Dylan Johnson.>
<Lascia perdere.>
Si intromise una terza ragazza.
<Ho sentito che a letto fa veramente pena.>
Sorrisi ancora, anche mentre qualcuno si faceva spazio dietro di me e si posizionava al mio fianco.
<Ciao.>
La ragazza che adesso si trovava al mio fianco era la stessa che aveva parlato per ultima alle mie spalle, lo capii dalla voce, ma quando mi voltai a guardarla mi resi conto che non era una sconosciuta per me, come il resto della gente presente.
Era Gwen, la cugina di Dylan, la stessa ragazza che mi aveva vista in lacrime sul pavimento giorni prima.
<Ciao.>
Accennai un sorriso mentre lei mi osservava dalla testa ai piedi, la sua espressione indecifrabile.
<Io sono Gwen, ma questo già lo sai, non è così?>
<Si.>
Risposi appena.
C’era qualcosa in lei, nel modo in cui mi guardava, che quasi mi intimoriva. Emanava sicurezza, era bella e sapeva di esserlo, non tentava di nasconderlo, ti faceva sentire piccola al suo fianco. Capii che probabilmente era per quel motivo se le ragazze dietro di me si erano zittite dopo che lei aveva parlato.
<Io sono...>
<So chi sei, Alya, giusto?>
Mi stupii che conoscesse il mio nome, non credevo che Dylan le avesse parlato di me, ma forse era stato costretto a farlo dopo quella sera.
<Giusto.>
Si girò ad osservare i ragazzi che si preparavano a partire ed io feci lo stesso, si creò il silenzio tra noi ma io volevo parlarle, volevo conoscerla e volevo che lei conoscesse me.
Probabilmente dopo il nostro primo incontro credeva che fossi una debole che correva da Dylan a piangere, volevo farle capire che ero più di questo.
<Vieni spesso a vederlo correre?>
Non mi girai a guardarla e lei fece lo stesso quando mi rispose.
<Non vengo per lui.>
<Per chi, allora?>
Alzò un braccio e puntò il dito verso il ragazzo affianco a Dylan, mentre i due sembravano chiacchierare.
<È il tuo ragazzo?>
<No, ci vado solo a letto.>
Quasi mi strozzai dopo quella sua affermazione, Dylan mi aveva sempre descritto Gwen come la sua piccola sorellina minore, non mi aspettavo di trovarmi davanti una donna con tutto quel carattere.
<Non dirlo a Dylan però.>
<Come mai non vuoi che lo sappia?>
Il suo sguardo quasi cambiò.
<Loro due si odiano, Blake è il suo acerrimo rivale nelle corse, l’unico che riesca a dargli filo da torcere. È guerra aperta da anni tra loro.>
Mi scappò una risata.
<Che stronzata, è solo un gioco.>
Scappò una risata anche a lei.
<È molto più di un gioco.>
Mi voltai a guardarla, pronta a chiederle cosa intendesse esattamente, ma un colpo di pistola mi fece trasalire e mi spinse a guardare giù, dove la corsa era appena iniziata.
Gwen aveva ragione, quello decisamente non era un gioco.
Avevo avuto ragione anch’io, tra l’altro, era decisamente pericoloso.
Mi aspettavo una semplice gara a chi arriva primo, ma era molto più di questo.
Lungo la pista erano stati posizionati vari ostacoli, alcuni da schivare, altri da saltare.
Ad uno ad uno vidi i motociclisti cadere, ed ogni vota sussultavo per la paura.
Dylan però no, lui era in testa, insieme a Blake.
Schivava ogni ostacolo con precisione senza mai perdere il controllo, saltava con sicurezza senza il minimo accenno di paura.
Era un presuntuoso, ma aveva ragione, era il migliore tra tutti.
Perfino Blake alla fine, dopo aver combattuto con ogni forza, non riuscì a superarlo.
Dylan tagliò il traguardo, delineato con un’altra linea immaginaria, mentre una ragazza dai lunghi capelli biondi sventolava un fazzoletto rosso per indicare la fine della corsa.
La folla esplose, urla di gioia da parte di chi faceva il tifo per lui e di rabbia da parte di chi aveva puntato su un altro corridore.
Io mi ritrovai a battere le mani per la gioia, un sorriso smagliante stampato sulla faccia.
Adrenalina, paura, euforia, gioia.
Le emozioni avevano fatto a cazzotti dentro di me durante tutta la corsa.
Quando mi voltai verso Gwen per osservare la sua espressione, non riuscii a leggerla un’altra volta.
<Mi dispiace per Blake.>
Osai dire.
<Meglio così, se è incazzato dopo la corsa faremo del sesso più interessante.>
Le sorrisi, quasi come se mi trovassi davanti un’amica, con mia sorpresa lei fece lo stesso. Poi ci girammo ad osservare Dylan che nel frattempo era sceso dalla moto e stava abbracciando alcuni degli altri corridori con un enorme sorriso sulle labbra.
<Tu gli hai fatto qualcosa.>
Disse lei ad un tratto.
<Che intendi?>
<Lui...ride.>
<Non rideva prima?>
<Non così.>
Mi voltai a guardarla e per un attimo calò il silenzio tra noi.
<C’è qualcosa di diverso in lui.>
<Cosa c’è di diverso?>
Lei non si voltò a guardarmi, ma io notai il suo sguardo cambiare mentre guardava lui.
<Ha un vuoto dentro, una tristezza cucita addosso, da quando sua madre se n’è andata. Ma adesso...>
Fece una pausa e finalmente si voltò verso di me.
<Adesso è come se quel vuoto sia stato riempito con qualcos’altro, qualcosa di bello, qualcosa di puro.>
Rimasi zitta mentre lei si voltava dandomi le spalle, come se volesse dire l’ultima parola prima di andarsene.
<Hai aggiustato qualcosa dentro di lui, ti sono grata per questo.>
Poi se ne andò.
Avrei voluto che restasse, avrei voluto dirle che anche lui aveva aggiustato qualcosa dentro di me.
Avrei voluto dirle che avrei lottato per impedire che si rompesse qualcos’altro dentro di lui.
Dirle che l’avrei protetto, che avrei curato ogni sua ferita così come lui curava le mie.
Che ci portavamo addosso le stesse cicatrici e che per questo sapevo quanto fa male.
Ma lei se n’era andata, perciò io mi voltai verso di lui e trovai i suoi occhi verdi già incastrati perfettamente nei miei.
Ti amo.
Pensai.
Ma non lo dissi, non ancora.
STAI LEGGENDO
Come amano le stelle
RomanceLa vita ha preso a calci Alya troppe volte, per troppo tempo. Le ha portato via la mamma troppo presto, lasciandola da sola a fare i conti con la malattia mentale del padre. Le cicatrici sul suo cuore sono troppo vecchie, troppo profonde, e Alya è...