Mi ero trascinata a casa quella sera.
La discussione con Ellie mi aveva devastata, e come se non bastasse ero passata a trovare Noah a casa dei nonni, promettendogli che l’avrei riportato a casa con me molto presto, lui però non l’aveva presa bene.
Aveva pianto e preso a calci l’aria, urlandomi quanto fossi pessima come sorella maggiore.
Lo sapevo.
Sapevo di essere una sorella pessima.
Mi ero dedicata a lui in tutto e per tutto da quando la mamma non c’era più, avevo curato la sua varicella, lottato contro ogni febbre, dormito al suo fianco quando aveva gli incubi. Ero diventata la sua mamma, il suo papà, la sua compagna di giochi e la sua migliore amica, ma raramente ero stata sua sorella.
Mi riusciva bene prendermi le responsabilità di un genitore, ma non mi riusciva per niente essere la sua spalla, quello che dovrebbe essere una sorella o un fratello.
Era difficile pensare a lui quando io cadevo a pezzi.
Se l’avessi riportato a casa con me avrei fatto del male sia a lui che a me stessa.
Avevo bisogno di riordinare le idee, di rimettere insieme i miei pezzi, prima di incollare i suoi.
Aveva bisogno di me, lo sapevo, ma io…
non ci riuscivo.
Qualche altro giorno.
Dissi a me stessa mentre infilavo la testa sotto le coperte.
Qualche altro giorno, il tempo di sistemare il casino che ho nella testa, poi avrei pensato al resto.
Aprii gli occhi con ancora la testa sotto le coperte, il nero del buio mi assalì, ma non mi spaventò.
A volte trovavo pace nel buio.
È per questo che lì, sotto le coperte, tra il buio e il silenzio della casa vuota, rilassai ogni muscolo del mio corpo e tirai un lungo respiro.
Era un respiro pesante, pieno di paure, di ansie, di rabbia, tristezza.
Eppure, dopo averlo lasciato andare, venni pervasa da un senso di estraneità.
Accolsi quel sentimento come se lo stessi aspettando già da troppo, la sua carezza era come una folata di vento freddo fra i capelli.
Lasciai che mi spettinasse, che si prendesse tutto di me, tutti quei sentimenti che non volevo sentire più, almeno per un po'.
E per un attimo…
non sentii niente.
Mi piacque, così tanto che ero pronta a chiedergli di restare.
Avrei voluto parlare a quella mano fredda che mi accarezzava e chiederle di restare ancora un po', di fondersi con il mio corpo e iniziare a far parte di me, così che io non sentissi più nulla.
Niente più dolore, niente più paura, niente più sentimenti.
Perché ero stanca.
Stanca di quelle emozioni, stanca di un mondo che sembrava non capirmi.
Non volevo sentire più niente, volevo diventare parte di quel buio e non sentire più nessun dolore.
Ma mentre assaggiavo quel niente, un rumore mi riportò indietro, strappandomi da quel senso di vuoto che mi stava tendendo la mano.
Rimasi ancora con la testa sotto le coperte per un po', chiedendomi se avessi immaginato quel rumore, se magari fosse stato solo in strada e non dentro casa mia.
Forse mi ero addormentata mentre guardavo il buio da sotto la coperta del mio letto, forse era per quello che adesso sentivo dei passi nella mia camera, forse stavo solo sognando che una mano scostava la coperta facendomi uscire dalla mia tana buia e calda.
Ma no.
No, non stavo sognando.
Perché la coperta si era davvero spostata, e la mia testa aveva davvero abbandonato il buio ed il caldo per tornare alla luce fioca dell’abat jour e al freddo che entrava dalla finestra aperta.
Non stavo sognando Dylan in piedi accanto al mio letto, con il cappuccio della felpa nera a coprirgli i capelli e gli occhi verdi che luccicavano sotto la luce lieve.
<Che ci fai tu qui?>
La mia voce ruppe il silenzio che avevo tanto amato fino a qualche attimo prima, non mi alzai, quasi immobilizzata, osservandolo con gli occhi spalancati.
<Sei sveglia.>
Rimase in piedi a fissarmi ancora con quei suoi occhi meravigliosi, eppure il suo sguardo sembrava spento.
<Non ne sono sicura.>
Mi misi seduta sul letto, cercando ancora di convincermi di non essere dentro ad un sogno.
<Mi mancavi.>
Le sue parole mi fecero mancare un battito, inaspettate, improvvise.
<Dove sei stato? Sei andato via all’improvviso l’altra notte, non avevo idea di dove fossi.>
Se ne stava ancora lì in piedi accanto al letto, gli occhi incastrati nei miei, ma non riuscivo a leggerci nulla dentro.
<Ho fatto una gita.>
Accennò un sorriso.
<Che tipo di gita?>
<Posso venire lì stellina? Nel tuo letto. Posso...si ecco...io vorrei...>
Inciampò sulle sue parole e anche sul tappeto, cadendo sul pavimento, come se non si reggesse in piedi.
Scattai dal letto e senza neppure rendermene conto mi ritrovai in ginocchio sul pavimento, al suo fianco, mentre un odore forte mi provocò un bruciore al naso.
Sigarette e...birra.
Puzzava di birra.
<Hai bevuto?>
Scoppiò a ridere, una risata acuta ma che non conteneva nessun accenno al divertimento.
<Oh cavolo, sono caduto.>
Rise ancora mentre io lo fissavo, domandandomi perché avesse bevuto una quantità tale da ridurlo così, da nascondere il suo profumo dolce che tanto amavo.
<Dylan...rispondimi.>
Smise di ridere e tornò a guardarmi negli occhi, mentre il suo sguardo si annebbiava un’altra volta.
<Qual era la domanda?>
<Hai bevuto?>
Chiuse gli occhi a fessura e mi prese la mano che tenevo poggiata al suo ginocchio.
<Ti va di fare l’amore con me Aly?>
Mi bloccai per un attimo di fronte a quella proposta, al suo tono.
Parlò come se ne avesse bisogno, c’era dolcezza nella sua voce, ma anche qualcos’altro che non riuscivo a capire.
<Ti va di stenderti sul letto?>
<Tu vieni?>
Mi ricordò Noah dopo un incubo, mi chiedeva sempre di dormire con lui quando ne aveva uno, improvvisamente mi tornò in mente la visione di Dylan bambino.
Mi tornò in mente ciò che mi aveva detto riguardo sua madre, la notte scorsa.
Chi dormiva con lui quando da bambino aveva un incubo? Chi gli stringeva la mano?
<Si, vengo anch’io.>
Risposi decisa mentre lasciavo che si appoggiasse a me per alzarsi dal pavimento.
Una volta sistemato sul letto, poggiò la testa sul mio ventre, con una mano mi accarezzava la coscia nuda.
Gli passai una mano tra i capelli ripetendo quel movimento con la speranza che si rilassasse e dormisse. Se è possibile, in quel momento mi sembrò più vulnerabile della notte precedente.
<Forse hai ragione tu stellina, sono un po' ubriaco.>
Non risposi, lasciando che si rilassasse sotto il mio tocco, quasi cullandolo.
<Vuoi sapere dove sono stato per la mia gita?>
Non parlai neanche stavolta, qualcosa si stava muovendo dentro di me, stava cambiando.
Lui eri lì, poggiato sul mio ventre, e mi sembrava così fragile.
Avrei voluto proteggerlo da ogni cosa, da tutto il male del mondo.
Avrei voluto strappargli i ricordi tristi della sua infanzia e sostituirli con qualcosa di nuovo, di più felice.
Forse mi ero sbagliata, a lui non piaceva la sua scatola, è solo che non sapeva come uscirne.
Era in trappola, preso in ostaggio da tutto quel dolore che aveva dovuto sopportare.
Non se lo meritava…non meritava neanche una briciola di quel dolore.
<Sono stato allo chalet, te lo ricordi?>
L’accenno di un sorriso si presentò sul mio viso ricordando quel posto, il nostro posto, i nostri ricordi felici in quel paradiso in cui c’eravamo solo noi e il nostro amore.
<Certo che lo ricordo.>
Continuai a muovere la mia mano tra i suoi capelli ed anche lui continuò a muovere la sua sulla mia coscia nuda.
<Sono andato lì perché non volevo pensare.>
<Ci sei riuscito?>
<No.>
Si alzò di scatto facendomi trasalire, scese dal letto e si rialzò il cappuccio della felpa.
<Sono andato lì perché non volevo pensare più a te.>
Mi mancò il fiato mentre mi rendevo conto che la causa della sua condizione ero io.
Era scappato da me, era andato in quel posto solo perché non voleva più pensarmi.
<Ma quando sono arrivato mi sono accorto che era impossibile. Ho dovuto strappare via le lenzuola dal letto perché profumavano di te.>
Rimasi a fissarlo interdetta mentre sul suo viso si colorava un’emozione che non conoscevo.
Amarezza, forse.
<Ma poi mi sono reso conto che continuavo a sentirlo nonostante le avessi tolte, allora ho capito che probabilmente ero io ad avercelo addosso. Mi sono tolto i vestiti e sono andato a farmi una doccia, ma l’acqua amplificava quel profumo e mi è tornato in mente quando abbiamo scopato in quella stessa doccia.>
Tirò un lungo sospiro voltandosi a guardare fuori dalla finestra, io rimasi zitta, non sapevo che dire, non sapevo neppure cosa volesse dire lui.
<Sono andato lì per non pensare a te ma ogni cosa mi ricordava te. Il letto, la doccia, quel maledetto tavolo di legno su cui abbiamo fatto sesso e...cazzo...quello è stato il sesso migliore della mia esistenza.>
Tornò a posare lo sguardo su di me ed il mio cuore iniziò a battere all’impazzata, mi sentii sciogliere sotto quello sguardo che da sempre aveva troppo potere su di me.
<Non lo capisci Aly? Quella casa è intrisa di te...è piena di te, di me, di noi. Come potevo non pensarti? Dio, questa cosa mi manda fuori di testa.>
<Perché?>
Riuscii a dire ad un certo punto, sedendomi sul bordo del letto, più vicina a lui.
Una parte di me temeva la sua risposta, l’altra l’aspettava.
<Perché vuoi tanto non pensarmi più? Perché ti manda fuori di testa il fatto che non riesci a cancellarmi? Perché vuoi scappare da me?>
Fece scivolare le braccia lungo i fianchi, quasi in segno di arresa, di sconfitta, poi sospirò un’altra volta.
<Perché tu mi fai provare delle emozioni, e io non voglio.>
E il mio cuore perse un altro battito.
<Perché no? Che c’è di male nel provare emozioni?>
È giusto, avrei voluto dirgli.
Puoi concedertelo, te lo meriti.
Il suo sguardo tornò freddo e si avvicinò a me a passo lento, avvicinò le sue labbra al mio orecchio e un brivido mi salì lungo la schiena.
<Le emozioni rendono deboli stellina.>
Fece scorrere la lingua sul lobo ed io mi ritrovai a inarcare i fianchi in risposta.
<E io non sono debole.>
Si allontanò dopo avermi sussurrato quelle parole, lasciandomi con un vuoto che sentivo l’esigenza di colmare.
Si avvicinò alla finestra e mise un piede sul davanzale.
<Te ne vai un’altra volta?>
Si girò a guardarmi come se volesse imprimere la mia immagine nella sua mente, come se fosse l’ultima volta in cui poteva guardarmi.
<Ho una corsa.>
<Che cosa?>
Scattai in piedi e mi avvicinai anch’io alla finestra.
<Non ti reggevi in piedi fino a due minuti fa e adesso vuoi partecipare a una corsa?>
Schioccò la lingua.
<Sto benissimo.>
Incrociai le braccia al petto, mentre il suo sguardo scendeva su tutto il mio corpo che era coperto solo dalla t-shirt che usavo come pigiama.
<Se pensi che ti lascerò andare ti sbagli di grosso.>
Ero seria, serissima, non l’avrei lasciato andare, anche a costo di legarlo al mio letto.
<E cosa pensi di fare per trattenermi?>
<Io..io...>
Pensa Aly, pensa. Dì qualcosa, qualunque cosa, ma fermalo.
<Oddio, cos’è quello?>
Mi girai di scatto verso la direzione che indicava con il dito, ma lì non c’era un bel niente.
<Cosa c’è?>
Quando guardai di nuovo la finestra, lui non c’era più, ci ero cascata come una bambina.
Furiosa battei un piede a terra cercando di riflettere, mi affacciai alla finestra nella speranza di vederlo ma era troppo buio.
Il mio telefono si illuminò sul comodino ed io mi ci fiondai.Dylan: sei bellissima quando ti arrabbi.
Voleva la guerra? Bene.
In un batter d’occhio mi ritrovai in macchina a guidare verso il luogo in cui si tenevano le corse.
Con mia grande sorpresa scoprii che la mia memoria fotografica aveva memorizzato punti di riferimento lungo tutto il tragitto, perciò trovare la strada fu più semplice del previsto.
Se Dylan pensava che avrei davvero lasciato che prendesse parte ad una gara in quelle condizioni si sbagliava di grosso.
L’avrei trovato, gli avrei impedito di correre, e l’avrei riportato a casa.
Dopo averlo schiaffeggiato, magari.
Ma non mi importava di nient’altro.
La sua incolumità era la mia priorità, anche se mi aveva detto che non voleva più pensare a me, non gli avrei permesso di rischiare la sua vita in quel modo.
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Come amano le stelle
RomanceLa vita ha preso a calci Alya troppe volte, per troppo tempo. Le ha portato via la mamma troppo presto, lasciandola da sola a fare i conti con la malattia mentale del padre. Le cicatrici sul suo cuore sono troppo vecchie, troppo profonde, e Alya è...