In ginocchio su quel pavimento freddo, il mondo iniziò a ruotare al contrario.
Chi era quella bellissima ragazza dagli occhi marroni?
Aveva lunghi capelli neri lisci ed una frangia che quasi le copriva gli occhi, portava dei jeans ed una felpa larga. Era bella, molto bella, di sicuro più di me.
Mi guardava dall’alto, con la stessa espressione confusa che probabilmente avevo anch’io.
<Va’ a farti un giro.>
Le disse lui, senza neppure guardarla, ancora in ginocchio davanti a me.
Sedurre e abbandonare, proprio come aveva detto Liam.
Senza replicare lei se ne andò, scavalcandomi per passare come se fossi una carcassa sul pavimento, non la guardai neppure mentre attraversava il corridoio e spariva.
<Aly, parlami.>
Voleva parlare? Bene, sapevo esattamente di cosa.
<Lei chi è?>
Lo guardai dritta negli occhi.
<Non importa adesso.>
<Chi è?>
Domandai ancora, volevo saperlo, dovevo saperlo.
<Aly, non...>
<No!>
Sbottai alzandomi dal pavimento, l’acqua che ancora gocciolava dai miei capelli bagnando la moquette sotto di me.
<Basta bugie, basta mezze verità, basta segreti. Ci sei andato a letto?>
Ero ormai furiosa, sentivo la testa scoppiare, erano successe troppe cose in poco tempo. Senza di lui non avevo dove scappare, senza di lui ero da sola.
<Cosa? No.>
<Stronzo.>
Feci per andarmene ma lui mi bloccò, prendendomi per un braccio.
<È Gwen,mia cugina.>
Ed eccomi, stupida, un’altra volta.
Mi rimisi di nuovo di fronte a lui, con la stessa espressione di un bambino dopo aver combinato un guaio. Scuse, scuse silenziose.
<Perché non me l’hai detto subito?>
<Perché per me era più importante sapere il motivo per cui sei venuta qui in lacrime e completamente bagnata, a proposito...>
Si spostò da davanti la porta, facendomi segno di entrare, ed io entrai a testa bassa mentre lui richiudeva la porta alle nostre spalle.
<Allora?>
Si appoggiò alla porta con le spalle, ed io mi voltai a guardarlo. Solo in quel momento mi resi conto di quanto fosse bello con la sua tuta grigia e una t-shirt bianca. I suoi pettorali si intravedevano da sotto stoffa bianca, anche il suo tatuaggio sul costato si vedeva appena, i pantaloni grigi gli aderivano sulle gambe alla perfezione delineando tutti i contorni. Se fossi stata un pittore, avrei voluto fargli un ritratto.
Lo raggiunsi con un andatura lenta, senza mai staccare i miei occhi dai suoi, quando gli fui abbastanza vicina gli presi il viso fra le mani e lo baciai con ardore.
Ecco di cosa avevo bisogno.
Sentii il mio corpo rigenerarsi, sentii il dolore al petto affievolirsi, non sentivo neanche più i vestiti bagnati appiccicati sulla mia pelle.
Calore, ecco cosa sentivo.
Il suo calore che mi avvolgeva e mi riscaldava, mi ricostruiva, mi faceva sentire di nuovo viva.
<Calma stellina, non voglio approfittare della tua vulnerabilità.>
Sorrisi e sbuffai allo stesso tempo, ancora premuta su di lui.
<Non voglio pensare.>
Tornai a poggiare le mie labbra sulle sue, ma lui si staccò da me un’altra volta, ed io ero già pronta a rinunciare.
Mi guardò negli occhi intensamente, con un’espressione che faticavo a decifrare.
<Neanch’io.>
Iniziò a baciarmi con passione, ed io ricambiai con la stessa. Si girò ed io mi ritrovai con la schiena poggiata al muro e le gambe avvolte ai suoi fianchi, mentre lui iniziava a baciarmi il collo ed i miei capelli bagnati ricadevano sulla sua fronte.
<Dylan...>
Riuscii a dire a fatica.
<Si stellina?>
<Ti voglio.>
Lo sentii sorridere sul mio collo.
<Pazienza.>
Gli presi il viso e lo portai di fronte a me, adesso ci guardavamo negli occhi, occhi che urlavano dal desiderio.
<Ti voglio adesso.>
Dissi ,senza esitare, e finalmente vidi il suo sorriso malizioso. Quel sorriso che, speravo, riservava solo per me.
Senza farmelo ripetere, sbottonò i miei jeans e me li tolse, facendo lo stesso con la mia biancheria. Capii che la tuta grigia sarebbe diventato il mio indumento preferito da quel momento in poi, perché fu facilissimo toglierla.
Quando mi riempì, sentii il mio corpo farsi più leggero.
Con ogni spinta si portava via un pezzetto di me, ma non pezzi importanti, solo il dolore. Si muoveva veloce dentro di me ed io dimenticavo ogni cosa. Dimenticavo tutto il male che la vita mi aveva fatto, dimenticavo le ferite, le paure, tutte le cicatrici che erano rimaste sul mio cuore. Tutto dentro di me si decomponeva per poi ricomporsi, si distruggeva per ricostruirsi. Ed io mi lasciai andare a quel piacere che mi consumava, che mi faceva sentire viva, in fiamme, di nuovo tutta intera.
Avrei voluto che quella sensazione non finisse mai, ma il piacere avrebbe ben presto raggiunto il suo apice, lo sentivo, dentro di me e dentro di lui.
Quando arrivò il culmine però, io mi sentivo ancora appagata, mi aveva aggiustata.
<Vuoi andare in un posto?>
Disse ansimante, la testa incastrata tra il mio collo e la mia spalla.
<Che posto?>
<Un posto in cui possiamo non pensare.>
Sorrisi e lo strinsi forte.
Un’ora dopo eravamo sulla sua moto con solo uno zaino in spalla.
Non ero neppure passata da casa a prendere qualche cambio di vestiti, Dylan aveva portato t-shirt a sufficienza per entrambi, dicendo che non serviva vestirsi per bene in quel posto. Aveva poi aggiunto, sorridendo, che non gli dispiaceva avermi intorno con solo una sua maglietta in dosso.
Non mi disse dove stavamo andando, e per strada non vedevo altro che alberi.
Ma quando arrivammo a destinazione, non potei fare a meno di sorridere, ma non un semplice sorriso, un enorme sorriso.
Eravamo davanti ad un bellissimo chalet di montagna, completamente di legno e con il tetto spiovente, i pini tutt’intorno ed un piccolo ruscello qualche passo più in là. Regnava il silenzio, ma non quel silenzio che ti fa sentire solo, bensì un silenzio che ti fa sentire libero.
<Di chi è questa casa?>
<Mia.>
Lo sguardo stupefatto che prima guardava lo chalet adesso guardava lui allo stesso modo. Come poteva essere suo? Non aveva neanche un lavoro a quanto ne sapevo.
<Era di mio padre, a quanto diceva mia madre.>
Il peso della sua situazione familiare mi piombò sul cuore di colpo.
<Quando mi lasciò dai miei zii non portò nulla con sé, lasciò tutto nella nostra vecchia casa. Appena divenni abbastanza grande da occuparmene decisi di vendere tutto,
tranne questo.>
<Quand’è stata l’ultima volta che sei stato qui?>
Iniziammo a salire le scale del portico e lui inserì la chiave nella serratura.
<Quando avevo sette anni.>
Non metteva piede in quella casa da tutto quel tempo e adesso ci aveva portato me. Quel pensiero mi fece sentire grata ed in colpa allo stesso tempo. Forse non c’era più tornato perché quel posto gli riportava alla mente ricordi che non voleva rivivere, eppure stava mettendo da parte le sue paure, per me.
<Perché hai voluto tornarci ora? Con me?>
Per me, avrei voluto dire.
<Perché ti serviva non pensare a niente per un po', e anche a me. È il posto giusto.>
Aprì la porta dopo aver concluso la frase, io persi completamente le parole.
Quel posto era enorme, ma anche accogliente. C’era un camino gigantesco e dei divani bianchi trapuntati, a sinistra un enorme arco di marmo apriva le porte ad un’ampia cucina in muratura, troppo grande per una persona sola. Di fronte a me, subito dopo l’arco e i divani, c’era un grande tavolo di legno che mi fece pensare a quanto doveva essere bello passare il natale lì con la propria famiglia, tutti seduti attorno quel tavolo a ridere e a mangiare. Poi però guardai Dylan e capii che probabilmente non aveva mai avuto tutto questo. Dietro al tavolo una vetrata si affacciava sulle montagne, regalando una vista da togliere il fiato. Una scala a chiocciola di legno scuro, con una ringhiera in ferro, portava a quelle che dovevano essere le camere da letto. Non avevo ancora visto tutta la casa ma mi sentivo già in paradiso.
<Grazie.>
Mi voltai a guardarlo e lessi la nostalgia nei suoi occhi.
<Non devi ringraziarmi.>
Fece sparire quella nostalgia dal suo sguardo e si girò verso di me, mi prese il viso fra le mani ed io incrociai le mie braccia intorno alla sua vita.
<Farei di tutto per farti sorridere.>
Ed io lo feci, gli regalai un sorriso.
<Ecco la mia ricompensa.>
Si avvicinò e mi stampò un bacio leggero sulle labbra.
Mi sentivo quasi consumata dall’amore che provavo per quel ragazzo.
<C’è un supermercato non lontano da qui, vado a compare qualcosa da magiare, tu fa come se fossi a casa tua.>
<D’accordo.>
Mi baciò un’altra volta e poi se ne andò.
L’unica cosa che riuscii a fare in sua assenza, dopo una doccia bollente, fu sdraiarmi sul divano e fissare il soffitto.
Avevo spento il cellulare perché non volevo parlare con nessuno della mia famiglia, non avevo trovato una televisione in quella casa e neppure un libro. Alla fine mi ero arresa al fatto che forse in quella casa si pensava troppo, invece che niente.
Non mi mossi dalla mia posizione neppure quando Dylan tornò, posò la spesa in cucina e venne a sedersi nel divano accanto al mio.
<Che cosa fai?>
<Penso.>
<Credevo dovessimo smettere di pensare mentre siamo qui.>
<E come si fa? Non c’è niente con cui distrarsi.>
<Io avrei in mente un’attività che fornisce un altissimo livello di distrazione.>
Mi misi seduta di scatto, guardandolo, lui sorrise malizioso.
<Non ne ha ancora avuto abbastanza, signore?>
Scherzai.
<Di te? Mai.>
Mi alzai sorridendo e mi misi a cavalcioni sulle sue ginocchia.
<Gioco della verità.>
Disse serio, posando una mano sul mio fondoschiena.
<Cosa?>
<Il gioco che facemmo quella volta al lago, ricordi?>
Me lo ricordavo piuttosto bene, ma quella non era proprio la mia idea di distrazione.
<Ricordo bene, soprattutto quello che successe dopo.>
Lo stuzzicai passando una mano sul suo petto, lui mi prese in braccio e mi adagiò sul divano accanto a lui.
<Giochiamo.>
<Vuoi solo sapere perché sono venuta da te in quelle condizioni.>
Sbuffai seccata.
<Vero.>
Mi prese una mano ed iniziò a disegnare piccoli cerchi sul dorso.
<Non ne voglio parlare.>
<Lo so.>
<Allora perché me lo chiedi?>
<Non te l’ho chiesto.>
Si prendeva gioco di me.
<Come mai Gwen è qui?>
Anch’io volevo delle risposte, e volevo sviare la conversazione su qualcosa che non riguardasse me.
<Non le piace essere schiava della monotonia.>
<Cioè?>
<Ogni tanto combina qualche guaio e si allontana da casa per un po', stavo cercando di convincerla a tornare quando sei arrivata.>
<Le vuoi molto bene, non è così?>
Distolse lo sguardo da me e si fermò a fissare un punto della casa.
<Si, è così. Non voglio che faccia i miei stessi errori.>
<Quali errori?>
Sperai che fosse finalmente pronto ad aprirsi un po' di più.
<Il gioco della verità è per me adesso?>
Sorrisi.
<Inizia tu, poi forse sarà il mio turno.>
Ricambiò il mio sorriso, seppur lievemente.
<Qualche anno fa ero un ragazzino ribelle, frequentavo gente sbagliata e luoghi sbagliati. Avevo da poco scoperto della nuova famiglia di mia madre e provavo così tanta rabbia da dimenticare chi fossi.>
Fece una pausa e si girò di nuovo a fissare quel punto.
<Volevo capire perché mi avesse abbandonato, volevo capire perché aveva scelto la droga al posto di suo figlio.>
Mi avvicinai a lui e posai la mia mano sulla sua, sulla stessa che prima stava accarezzando me, il cuore già mi faceva male pensando a tutto quello che aveva passato.
<Iniziai a farmi di droghe pesanti, ne provai di ogni genere, solo perché volevo sapere cosa si provasse. Volevo sapere se era in grado di rendere felici più di quanto potesse fare l’amore di un figlio.>
Le lacrime arrivarono ai miei occhi, ma cercai di non lasciarle scendere, non potevo. Quello era il suo momento di vulnerabilità, non il mio, io ne avevo avuti già troppi.
Nonostante mi facesse male da morire pensare a quel piccolo Dylan così triste e solo, non ero io quella da consolare.
<Alla fine persi me stesso, ed anche la mia famiglia.>
I suoi occhi erano spenti, ma nessuna lacrima minacciava di scendere. Il suo cuore, rotto come il mio, era esposto. Ma la sua armatura era forte, e lui non cedette.
<I miei zii mi cacciarono di casa, dicendomi di tornare solo dopo aver chiuso con quel mondo. Io mi sentivo solo, perso, insignificante. Non sapevo come uscirne, dentro di me cresceva solo la voglia di averne ancora, sempre di più. Vivevo per quell’attimo, quel singolo attimo in cui il mondo smetteva di fare rumore. Lei si espandeva nel mio corpo, mi consumava, mi svuotava del tutto, divorava tutto quello che c’era dentro di me, ma io volevo solo non sentire più quel dolore che mi portavo addosso.>
Guardavo quel ragazzo forte davanti a me, e quasi mi riusciva impossibile immaginarlo così fragile, ma comprendevo il suo dolore. Lo capivo perché era anche il mio, ce lo portavamo addosso come una coperta di oscurità, ci divorava, eppure ancora non ci aveva spento. Lui era forte, il suo cuore era puro e buono, io lo sapevo. Sapevo anche che le ferite passano, ma lasciano una cicatrice che non se ne va. Adesso io vedevo la sua, così simile alla mia, indelebile e resistente.
La vedevo, la capivo, e l’amavo. Amavo lui e tutte le sue sfumature di oscurità, tali e quali alle mie.
<Poi cosa successe?>
Domandai, quasi in un sussurro, per paura di invadere la bolla che si era creato.
<Un angelo mi ha salvato.>
Finalmente tornò a guardarmi.
<Lei era la fidanzata di James, mio cugino.>
Provai confusione per un momento, mentre piccoli tasselli prendevano posto nel mio schema mentale.
<Voi...vi siete innamorati?>
<Si.>
Provai una leggera fitta al cuore, il pensiero dei suoi occhi che si perdono dentro a quelli di un’altra mi fece quasi rabbrividire, ma anch’io avevo un passato, tutti ne hanno uno. Ero pronta a comprenderlo e a custodirlo, così come lui aveva fatto con il mio.
<Per questo tu e James non andate d’accordo?>
<Proprio così.>
<E poi cos’è successo? Perché non siete rimasti insieme?>
Si zittì per un attimo, come se quella risposta gli facesse troppo male per pronunciarla.
<Non ho più voglia di pensare al passato, non ho proprio voglia di pensare, a dire il vero.>
Mi tirò a sé e mi ritrovai un’altra volta a cavalcioni su di lui.
<Bene.>
Risposi, ad un centimetro dalla sua bocca.
<Neanch’io.>
Facemmo l’amore su quel divano che sapeva di casa e di abbandono.
Non volevo sapere altro, non in quel momento, aveva detto abbastanza.
Si era spogliato dai mostri del suo passato, davanti a me, per me.
Feci l’amore con quel ragazzo tormentato, quel ragazzo che dopo mille tempeste aveva trovato la forza di cercare il sole.
Non volevo nient’altro, solo noi due e le nostre cicatrici.
La vita era stata una stronza con noi, ma finché rimanevamo insieme la pioggia non ci avrebbe mai bagnato, la nostra pietra non si sarebbe mai scalfita, le nostre stelle non avrebbero mai smesso di brillare.
Eravamo rotti, feriti, difettosi, quasi distrutti. Ma ci amavamo di un amore puro e forte, un amore che solo due persone rotte sono in grado di darsi.
Un amore che ti strappa il cuore, perché a volte l’amore può far male, ma poi rimette insieme i pezzi.
E se non è lui ad avere il mio cuore, allora non lo voglio neppure io.
Perché quel ragazzo apparentemente forte, ma realmente fragile, era esattamente la mia metà mancante.
Il mondo non mi avrebbe mai capita, ma lui mi leggeva dentro. Lui entrava nella mia voragine e la colorava. Con lui non era più buia, ma dipinta di colori pastello.
Non volevo che il mondo mi vedesse, che vedesse le mie paure e le mie fragilità, ma a lui volevo mostrare la parte più vera di me, volevo mostrargli com’ero realmente.
Rotta, ferita, fragile.
Ma anche viva, felice e brillante come una stella.
Con lui non avevo paura di essere vista, perché lui, era proprio come me.
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Come amano le stelle
RomanceLa vita ha preso a calci Alya troppe volte, per troppo tempo. Le ha portato via la mamma troppo presto, lasciandola da sola a fare i conti con la malattia mentale del padre. Le cicatrici sul suo cuore sono troppo vecchie, troppo profonde, e Alya è...