Epilogo

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“Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così”.
Italo Calvino








Esiste un tempo per ogni cosa
mi aveva sempre detto papà.
Non esiste ritardo nella vita, perché ognuno ha il suo tempo, ognuno diverso.
Non sei in ritardo perché stai ancora scegliendo la facoltà, mentre i tuoi amici hanno già iniziato gli studi.
Non sei in ritardo perché non sai cosa vuoi fare da grande, mentre gli altri hanno le idee chiare da quando frequentavano le elementari.
Non sei in ritardo se dopo i venticinque non sei ancora madre, se sei ancora single, se non hai ancora trovato il lavoro dei tuoi sogni.
Le cose semplicemente accadono, prima o poi, magari quando hai smesso di sperarci, succede e basta.
Io mi ero sentita in ritardo costantemente, avevo trascorso metà della mia esistenza a guardare gli altri raggiungere i propri sogni, chiedendomi quando sarebbe giunto anche il mio di tempo.
I miei sogni erano sempre troppo grandi, troppo irraggiungibili e troppo spaventosi, secondo la mia stupida testa.
Un giorno però, avevo capito una cosa:
i sogni devono fare paura, altrimenti significa che non sono abbastanza grandi.
Era successo in un pomeriggio di metà Novembre, mentre mettevo in ordine la mia scrivania, avevo ritrovato gli appunti che avevo scritto durante quei giorni allo chalet.
Gli appunti di quel libro che non mi ero mai concessa di scrivere, che tenevo nascosto tra i ricordi, riposto al sicuro dentro una teca di vetro nella mia memoria.
Li avevo fissati a lungo, quegli appunti, senza toccarli.
Mi ero chiesta se farlo avrebbe riaperto una ferita che stavo lentamente accettando, mi ero chiesta se avrebbe fatto male ancora.
Però c’era una voce che mi chiamava, la melodia di un pianoforte, la brezza di un vento leggero.
Qualcosa, dentro di me, aveva iniziato a muoversi e a volteggiare quando finalmente avevo preso fra le mani quei fogli.
Leggerli non aveva fatto male, anzi, quei ricordi avevano cantato dentro la mia testa, danzato sulle punte, fluttuato come una foglia mossa dal vento.
L’attimo dopo le mie mani si muovevano veloci sulla tastiera del mio computer, come se le parole fossero state sempre lì, nascoste, dentro di me.
Ad ogni parola, ad ogni frase, ad ogni pagina, qualcosa nella mia anima cresceva.
I mesi sembrarono passare in un battito di ciglia, mentre io scrivevo e scrivevo, rendendomi conto che ormai era come respirare.
Alla fine, quando mi ritrovai con le mani giunte sotto il mento ad osservare quello schermo su cui la scritta “Epilogo” spiccava in grassetto, mi lasciai andare al più bello dei miei sorrisi.
Esiste un tempo per ogni cosa, per ognuno di noi, e quello era il mio.
Le cose belle semplicemente accadono, tu però devi crederci.
Devi crederci con tutta te stessa, con tutto il tuo cuore, devi crederci così tanto da sentirlo reale.
Ed io l’avevo fatto, quando avevo inviato un’email con il mio manoscritto a numerose case editrici, ci avevo creduto.
Non so se si era trattato di fortuna, forse valevo più di quanto mi fossi mai concessa di credere.
Era successo, così in fretta da non accorgermene, in un attimo qualunque.
Qualcuno aveva risposto, qualcuno mi aveva letta, aveva letto quel libro che avevo scritto con il cuore e l’aveva compreso.
La vita può cambiare in un istante, a volte in meglio, altre volte in peggio.
Io però di quel peggio ne avevo già avuto abbastanza, l’universo si era già preso abbastanza gioco di me, ormai ero un vecchio giocattolo che non gli piaceva più.
E così mi aveva fatto un regalo, il più bello dei regali.
Non ero mai stata molto ambiziosa, anzi, mi ero sempre accontentata.
Mi ero accontentata di una vita difficile, di un lavoro precario e dell’impossibilità di seguire i miei sogni.
Ma quando la vita mi aveva spalancato le porte di quel sogno, avevo deciso che non volevo più accontentarmi.
Papà stava meglio, per quanto possibile, Noah cresceva felice e in salute, io ed Ellie non avevamo mai smesso di volerci bene come sorelle, e il cuore non mi faceva più male.
Il sole era tornato, forse un po' sbiadito, ma riscaldava comunque.
Ed io ero felice.
Ero felice mentre mi rigiravo nervosamente i pollici sullo sgabello di una grande libreria di New York.
Ero felice di poter sfogliare un libro con sopra il mio nome.
Ero felice della mia vita e orgogliosa di me stessa.
Avevo assistito a numerosi firma copie negli anni, adoravo quel momento in cui poggiavi davanti all’autore il suo libro dopo averlo letto e amato.
Amavo il momento in cui finalmente potevi dirgli quanto ti aveva aperto gli occhi, quanto ti aveva rattristato la morte di quel personaggio o quanto avevi odiato l’antagonista.
Amavo il momento in cui l’autore ti sorrideva, ed i suoi occhi brillavano fieri, consapevole che un piccolo pezzetto del suo cuore è entrato dentro di te.
Mi ero preparata per settimane al mio primo firma copie, volevo abbracciare i miei lettori, ascoltare i loro pareri sul libro, ammirare i colori che avevano scelto per i post-it e sbirciare le frasi che avevano sottolineato.
Mi ero chiesta se sarebbe venuto davvero qualcuno, o se sarei rimasta lì da sola, seduta su quello sgabello girevole.
Mi ero preparata all’ansia, all’emozione, alla paura.
Ma non mi ero preparata a quello.
Non ero preparata alla folla che aspettava in una fila ordinata fuori dalla libreria, non mi ero preparata a tutta quella gente.
Si, il libro stava vendendo.
Si, ricevevo centinaia di messaggi dai lettori ogni giorno.
Ma non credevo che sarebbe venuta tutta quella gente.
Ero spaventata ed entusiasta, euforica e in apprensione.
C’era così tanta gente che non avevo neppure il tempo di guardarli negli occhi mentre firmavo la loro copia. Mi ero immaginata di parlare con loro, di abbracciarli, stringerli, toccarli per assicurarmi che fossero reali.
Ma non c’era tempo.
<Deve sbrigarsi signorina, si limiti a firmare la copia.> Mi aveva detto il vecchio scorbutico che gestiva l’evento.
Avrei voluto fargli la linguaccia e fregarmene dei suoi “deve” e “si limiti”, ma alla fine mi ritrovai a fare esattamente come mi aveva detto.
Affranta, firmavo le copie senza alzare lo sguardo dal tavolino. I lettori mi facevano scivolare il libro sotto il naso, ed io ci scrivevo sopra il mio nome, ripetendo soltanto:
“devo intestarla a qualcuno in particolare?”
“vuoi che aggiunga una dedica?”
“È per una persona speciale?”
Ormai l’avevo ripetuto così tante volte che la mia lingua andava da sola, probabilmente tornata a casa avrei salutato papà chiedendogli se voleva una dedica.
<Devo intestarla a qualcuno in particolare?>
Domandai, per quella che mi sembrò la millesima volta.
<Ad un vecchio amico.>
Quella voce.
Era caos e ricordi, paure e amore, tanto amore.
Quella voce era sorrisi, carezze, mani che si stringono.
Era la stessa voce che sentivo sempre nei miei sogni, la stessa che mi faceva svegliare sudata, ma che mi faceva anche desiderare di tornare a dormire.
Era l’insieme delle mie speranze e dei miei timori.
Era quella musica che avevo tanto voluto riascoltare, quella melodia incastrata fra i miei ricordi, in un cassetto del mio cuore.
Era il mio incubo più grande, ma anche il mio sogno più bello.
Alzai la testa senza pensarci, come se quella voce avesse chiamato disperatamente il mio nome, come se stesse urlando restando zitta.
Quel verde.
Quel verde che avevo cercato in altri occhi, quel verde che non avevo mai dimenticato, che mi era rimasto addosso come un tatuaggio.
Il suo viso dolce, le sue labbra morbide, la leggera barba che gli era cresciuta con il tempo, le mani grandi abbandonate lungo i fianchi.
Tutto in lui era uguale, ma allo stesso tempo diverso.
Gli occhi avevano un’altra luce, le labbra erano colorate da un altro sorriso, i capelli erano leggermente più lunghi.
Ma era sempre lui, il mio frutto proibito, il mio peccato originale, la mia dannazione e la mia salvezza.
Era sempre lui, ed il mio cuore iniziò a fare le capriole, mentre nel mio stomaco tornava una vecchia sensazione che quasi avevo dimenticato:
farfalle.
<C-ciao.>
Balbettai, incredula, chiedendomi se finalmente aveva trovato il modo per uscire dai miei sogni, sperando che non fosse uno di loro.
<Ciao.>
Rispose, ed era reale.
Quella voce era reale, quegli occhi posati su di me lo erano, quel sorriso beffardo e meraviglioso anche.
Era lui, ed io non riuscii a fare a meno di sorridere.
<Sai, è buffo. Dicono che incontrarsi casualmente a New York è quasi impossibile.>
Proseguì, senza mai lasciare i miei occhi, come se li cercasse da sempre.
<Eppure, io ti ho trovata.>
Che ne sapeva lui, di tutte le volte in cui l’avevo cercato tra la folla. Di tutte le volte in cui avevo sperato che davvero mi trovasse, di quante volte avevo creduto di sentire la sua voce. L’avevo sentita chiamarmi, ed io mi ero voltata, mi ero sempre voltata.
Lui però non c’era mai.
Eppure adesso era lì, come il più bello degli angeli, l’incarnazione dei miei sogni, il mio desiderio ad ogni compleanno.
Era lì, ed io avevo perso la voce come una sciocca.
Mi ero ammutolita, tremante, come una ragazzina di fronte alla sua prima cotta del liceo. Non sembravo affatto la donna di successo che mi ero quasi convinta di essere, sembravo un animaletto spaventato, una patetica imbranata.
<Di cosa parla?>
Indicò con il mento il libro sul mio tavolino, ed io abbassai lo sguardo per scappare dal suo. Aveva sempre avuto troppo potere su di me, quello sguardo, e proprio come tempo prima mi aveva inchiodata sul posto facendomi perdere la ragione.
Passai le dita sulla copertina del libro, accarezzandolo delicatamente come se fosse di vetro e potesse rompersi.
Il mio piccolo gioiello, la mia più grande rivincita.
Quel libro era me, era Alya come nessuno l’aveva mai vista.
Era le mie paure, la mia ansia, il mio dolore e tutti quanti i miei sogni.
Ma non era solo mio.
<Di te.>
Dissi finalmente, alzando di nuovo lo sguardo, incastrando il blu dei miei occhi al verde dei suoi.
Mi accolsero, proprio come tanto tempo fa, i suoi occhi accolsero i miei.
Ed in quel momento si fusero, diventando un solo colore, un solo cuore, così come era sempre stato.
<Parla di te, parla di noi.>
Non ero un’esperta in amore, anzi non ci avevo mai capito niente.
Però una cosa l’avevo capita da quando lui se n’era andato:
non esiste nessun pezzo mancante.
Non siamo pezzi di un puzzle, non c’è nessuna metà.
Per amare davvero una persona, il cuore deve essere tutto intero, un cuore a metà ama a metà.
E così ci eravamo amati noi, a metà, perché i nostri cuori erano troppo rotti per amare forte.
Ci eravamo amati in quel modo perché nessuno dei due aveva il cuore intero, e ci eravamo convinti di poter trovare nell’altro la metà mancante.
Ma nessuno è la metà del tuo cuore, quella è solo una favola.
Tu sei tutta intera, non ti manca nessun pezzo, la tua esatta metà sei tu.
La persona che sta al tuo fianco non deve completarti, deve arricchirti, perché tu ti completi da sola.
La vita ci spezza continuamente, ci fa a pezzi, e noi passiamo il tempo a cercare quei pezzi in lungo e in largo. Crediamo di poterli trovare in un’altra persona, ma non è così. Sono dentro di noi, sono sempre stati lì, zitti in un angolo.
Più passa il tempo, più la vita ti insegna e quei pezzi tornano al loro posto.
Quando avrai di nuovo tutti i pezzi, potrai amare sul serio.
Perché la vita non è un viaggio alla ricerca dell’anima gemella, serve solo a ritrovare te stesso.
Ed io l’avevo fatto.
Avevo ritrovato tutti i miei pezzi, avevo ricostruito il mio cuore, ero tutta intera.
E non era merito suo, non era stato lui a completarmi, non mi aveva salvata da nessuna guerra.
Perché la mia guerra si combatteva sul suolo dei miei pensieri, e lui non sarebbe mai potuto entrare, perché nessuno può. Io ero l’unica in grado di indossare l’armatura e di impugnare quella spada.
Io avevo salvato me stessa.
Non serve nessun principe su cavallo bianco, nessun cavaliere della tavola rotonda, perché tu sei l’unica in grado di salvarti.
Lui non mi aveva salvata, ma mi aveva indicato la strada.
Adesso che l’avevo percorsa, adesso che avevo il mio intero cuore fra le mani, finalmente potevo donarlo a lui.
E sentivo che anche lui era giunto al termine del suo viaggio, anche il suo cuore adesso contava tutti quanti i battiti.
Forse, il destino è una cosa reale.
All’epoca non lo sapevamo, ma perderci era stato il primo passo di un viaggio per ritrovarci.
Abbassai lo sguardo sul libro, leggendone silenziosamente il titolo, mentre tutti i miei pezzi tornavano definitivamente al loro posto.

How they love the stars
Come amano le stelle

Perché, per tutto quel tempo, noi ci eravamo amati proprio come fanno le stelle:
in silenzio, e da lontano.
                                                                                                                                

Come amano le stelleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora