Mai amici

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La mattina seguente per fortuna la sveglia suonò un po' più tardi, essendo Domenica.
Con la mia famiglia avevamo organizzato un barbecue per passare del tempo insieme, ed io non vedevo l’ora dato che ultimamente ero stata poco presente. Quando mi alzai dal letto mi cadde l’occhio sul vestito poggiato sulla sedia, una sensazione di nervoso mi invase, ricordandomi che avrei dovuto quanto meno dirlo alla nonna per cercare una soluzione. Mentre ero immersa nei miei pensieri delle voci allegre arrivarono dal piano di sotto, mi scappò un sorriso, capii che gli altri erano già tutti insieme, mancavo solo io. Corsi in bagno a lavarmi ed indossai una tuta comoda con una canottiera, sperando facesse abbastanza caldo. Arrivata di sotto trovai nonna Anna in cucina, già all’opera, mentre Noah e il nonno giocavano in giardino.
<Buon giorno.>
Dissi, rivolgendo uno smagliante sorriso alla nonna.
<Buon giorno piccola, com’è andata la festa?>
Non avevo voglia di parlare della festa, di Ellie e del vestito, cercai un modo per evitare la domanda e lo trovai, accorgendomi che papà non era lì.
<Dov’è papà?>
La sua espressione cambiò, facendosi dispiaciuta.
<Tesoro, dice che non ha voglia di scendere.>
<Deve farlo, abbiamo organizzato questa cosa per passare del tempo tutti insieme, Noah ci tiene. Io ci tengo.>
Voltai le spalle alla nonna e mi diressi verso le scale, avrei convinto papà, lui doveva farlo, doveva farlo per Noah, doveva farlo per me.
Aprii la porta della sua camera e ci guardai dentro, lasciando che gli occhi si abituassero al buio.
<Papà?>
Non rispose, dormiva. Iniziai ad innervosirmi, iniziai a pensare che non gli importasse di noi ma solo di sé stesso. Tutti soffrivamo per la perdita della mamma, eppure pensavamo ancora a noi stessi e alle persone che ci volevano bene. Lui era mio padre, lui doveva esserci per me. Doveva essere lui a consolare me, doveva essere lui a prepararmi la cena, doveva essere lui ad accompagnare Noah a scuola, doveva essere il suo il primo sorriso da vedere rientrando a casa. Doveva essere lui la mia casa.
La rabbia mi salii alla testa, volevo urlare, volevo riportarlo alla realtà.
<PAPÀ!>
Questa volta mi sentii e si girò a guardarmi, assonnato.
<Devi venire giù, devi stare con noi, l’avevi promesso.>
<Scimmietta non riesco, mangerò qualcosa più tardi.>
Lacrime calde riempirono i miei occhi. Perché non capiva? Perché si comportava così? Come poteva non accorgersi che avevo bisogno di lui e che glielo stavo urlando con gli occhi?
Accesi la luce e mi avvicinai al suo letto, iniziai a tirargli via la coperte e a tirarlo per un braccio per farlo alzare, mentre le lacrime mi rigavano le guance.
<Tu devi, devi. Me l’hai promesso, mi hai promesso che saresti stato con noi. Mi hai mentito, sei un bugiardo.>
<Smettila...>
Disse lui, con un filo di voce, mentre io continuavo a strattonarlo.
<Non ci sei mai, non stai mai con noi. Tu non ci vuoi bene, tu….TU NON SEI UN PADRE.>
Mi portai le mani alla bocca, realizzando ciò che avevo appena detto, pentendomene.
Lui era il migliore dei padri, era sempre gentile e premuroso. Giocava con noi, chiacchierava con noi. Era sempre stato il mio eroe. Si era solo lasciato dominare dal dolore, dimenticandosi di tutte le cose belle. Ma era un grande uomo.
<Vattene Alya, ho detto che non ne ho voglia.>
<Papà io...>
<Ho detto vattene.>
Uscii dalla sua stanza chiudendo la porta alle mie spalle. Mi lasciai scivolare a terra, con il viso tra le mani ed esplosi in un pianto troppo colmo di emozioni, le lasciai andare.
Lui non meritava quelle parole, ed io non sapevo perché le avessi dette, ero arrabbiata, volevo solo riavere il mio papà. Con la morte della mamma, io avevo perso due genitori, non uno solo. E questo mi faceva sentire terribilmente sola e triste.
Nonna Anna arrivò con passi veloci, rumorosi, pesanti.
<Alya, che è successo?>
Non riuscivo a parlare, le lacrime scendevano troppo in fretta, i singhiozzi mi impedivano di respirare. Cosa avrei dovuto dire poi? Che ero una pessima figlia? Che avevo appena urlato a mio padre cose talmente orribili da non poterle ripetere?
<Aly rispondimi, stai bene? Tuo padre sta bene?>
<No.>
Risposi con un filo di voce, tra un singhiozzo e l’altro.
<Vuoi….vuoi che vada da lui?>
<No.>
<Allora che devo fare Aly? Dimmelo.>
<Va di sotto, stai con Noah. Pranzate, fallo giocare. Digli che sono dovuta uscire un attimo.>
Mi alzai, asciugandomi le guance con il dorso della mano, e me ne andai. Lasciandomi alle spalle il suo sguardo preoccupato.
Uscendo di casa assaporai l’aria fresca, tirai un lungo respiro, lasciandola entrare dentro i miei polmoni. C’era solo un posto i cui volessi andare, solo un posto in cui i problemi diventavano più leggeri, un solo posto in cui non sentivo più il caos intorno a me. Perciò, mentre il sole mi scaldava la pelle, iniziai a camminare, non mi importava quanto fosse lontano, era lì che dovevo andare.
Dalla mamma.
Lì seduta, davanti quel marmo bianco, davanti quella foto in cui il suo sorriso era più luminoso del sole, le lacrime tornarono.
Era un’abitudine per me ormai. Ogni volta che tutto crollava intorno a me, io scappavo da tutto, e correvo da lei. Che poi in fondo, è questo che fanno i figli, corrono sempre dalla mamma quando qualcosa non va. Ed io facevo lo stesso, solo che la mia mamma non poteva rispondermi. Eppure io la sentivo quando ero lì. La sentivo nelle folate di vento che dolcemente mi spostavano i capelli, la sentivo nel profumo dei fiori, la vedevo nei girasoli che tanto le piacevano. La sentivo nel fruscio degli alberi, nell’erba che mi accarezzava le caviglie. Lei era lì, lei era sempre lì, ne ero sicura.
<Perché mamma? Perché distruggo sempre tutto quello che tocco? Sono come una mina sempre pronta ad esplodere, e chi sta vicino a me si fa sempre del male.
Io non le pensavo quelle cose che ho detto a papà, tu lo sai vero? Non so perché l’ho detto. Io ti giuro che non lo so. È che...mi sento così sola mamma. E poi anche così vuota. Vedo tutti gli altri con le loro vite meravigliose, che hanno degli amici, dei fidanzati. Escono, si divertono, il loro unico problema è solo prenotare il tavolo per la serata. Perché io non ci riesco mamma? Per me niente è così facile. Voglio stare da sola ma allo stesso tempo odio il fatto che mi ci lascino. Nella mia testa ci sono così tante voci che a volte mi sembra di impazzire. Non ho uno scopo, non ho un obbiettivo, non so chi sono o chi sarò. Mi sento così inutile e sbagliata mamma, vorrei solo che tu fossi qui per dirmi dove sto sbagliando.>
Ovviamente le mie rimasero solo parole rivolte ad una fotografia su un muro. Ma, per me, era come se parlassi con lei. E sapevo che nei giorni successivi, in un modo o nell’altro, mi avrebbe dato una risposta.
Rimasi lì a lungo, perdendo la cognizione del tempo. C’era così tanta pace in quel posto, a tal punto che dimenticavo qualsiasi cosa.
Poi però decisi che era meglio tornare a casa, dovevo chiedere scusa a papà.
Mentre tornavo preparai un discorso, lui avrebbe capito, lui capiva sempre. Io però sapevo quanto male facessero le parole alle volte, perciò sapevo che perdonato non significava dimenticato. Quelle parole avrebbero continuato a far male, a me e a lui, potevo ricucire ma non cancellare.
Arrivata davanti la porta di casa tirai un lungo sospiro colmo d’ansia, con le parole ero brava solo quando dovevo scriverle, per il resto facevano sempre fatica ad uscire dalla  mia bocca. Mi feci coraggio ed entrai, preparandomi a sguardi accusatori. Entrando in cucina però non trovai ciò che avevo immaginato. Nonna Anna versava della spremuta in una grande brocca con del ghiaccio, mi sorrise non appena mi vide, facendomi cenno di guardare fuori. Papà era seduto in veranda, con i raggi del sole che gli illuminavano il viso, il vento gli spostava leggermente i capelli. Aveva le gambe accavallate e fumava una sigaretta, guardava Noah giocare con il nonno e sorrideva. Il cuore mi si riempii di gioia guardando quella scena, era tutto così bello, ed io mi sentii così grata. Sorridendo, mi avvicinai a lui e lo guardai. Lui si girò a guardarmi ma non disse nulla, perciò capii che dovevo farlo io.
<Papà mi dispiace. Davvero non sai quanto, io non pensavo ciò che ho detto, ero arrabbiata. Perdonami ti prego, sono solo una stupida.>
Le lacrime tornarono a far luccicare i miei occhi, papà mi sorrise e si girò di nuovo a guardare Noah. Pensai fosse il suo modo per punirmi, con il silenzio, non gli importavano le mie scuse, la ferita era troppo grande, non poteva perdonarmi.
<Alya tu sei la mia bambina. Non potrai mai fare sbaglio che io non possa perdonarti. Ti sei presa pesi troppi grandi, ti sei presa i miei guai. Ma non sei ancora pronta, hai ancora tanto da imparare dal mondo, non è questo il tuo momento per assumerti certe responsabilità. Oh mia piccola scimmietta, tu non meritavi questo. Non è giusto che tu debba sopportare tutta questa merda. Perciò sono io che devo scusarmi con te. Scusami se ho lasciato che i nostri ruoli si invertissero, scusami se mi sono perso, non ricapiterà. Le cose cambieranno bambina, te lo prometto. Tornerò ad essere il tuo papà. Hai perso già troppo, non perderai anche me.>
Piansi, ma questa volta non era tristezza, neppure rabbia. Questa volta era felicità che mi scoppiava dentro. Lo abbracciai e lo strinsi forte, avrei voluto fermare il tempo, un fermo immagine di quel momento, per conservarlo per sempre nei miei ricordi.
Restammo lì seduti, tenendoci per mano, vicini. Mentre intorno a noi calava la sera ed io mi sentivo più leggera, amata, grata alla vita.

L’indomani mi svegliai così di buon umore che mi sentivo in grado di scalare una montagna. La serata era trascorsa benissimo, tra risate e allegria. Avevo parlato alla nonna del vestito e aveva detto che ci avrebbe pensato lei e che non dovevo preoccuparmi. Mi sentivo positiva, carica di andare al lavoro. Anche se, mentre mi avviavo, tornò di nuovo quella sensazione.
FARFALLE.
Arrivata al bar Bill mi accolse come sempre, avvertendomi che oggi sarebbe venuto il tecnico perché la macchina del caffè faceva i capricci.
<Funziona, però fa attenzione, a volte schizza. Spero si possa riparare, se puoi evitare di usarla tanto meglio.>
<Capito, niente caffè.>
Quando se ne andò mi preparai un tè, dato che non avevo fatto in tempo a fare colazione, mi appoggiai al bancone sorseggiandolo, ed iniziai a leggere un libro che mi aveva regalato la nonna qualche giorno fa. Quando avevo già letto nove capitoli, urlato contro il protagonista e attaccato una quantità discutibile di post-it, la porta del bar si spalancò ed il rumore mi fece venire un infarto. Ed eccole lì, farfalle.
Era lui, Mr. Antipatia, e chissà perché il mio cuore iniziò a battere all’impazzata. Dopo la sera della festa avevo cambiato opinione su di lui, sembrava una bella persona in fin dei conti, volevo essere sua amica.
<Ciao stellina, un caffè.>
<Innanzitutto dovresti chiedere per favore.>
<Chi sei, mia madre? Sono in ritardo stellina, fai in fretta.>
Okay, adesso non era più tanto simpatico.
<Non posso. La macchina è rotta.>
<Ah si? E che succede se ci provi?>
<Bill ha detto di non farlo. Ha detto che…..schizza.>
Scoppiò in un’ampia risata, era tornato a prendersi gioco di me.
<Non avrai mica paura di due goccioline?>
Mi stava irritando, di nuovo. Rideva di me ed io non potevo permetterlo. Che fine aveva fatto il ragazzo che mi aveva portata a vedere quelle luci?
<Io non ho paura di niente. Ti farò questo maledettissimo caffè così potrai toglierti di torno.>
Rimase a guardarmi, sorridendo, con gli occhi che luccicavano di sfida.
Mi avvicinai alla macchina sentendomi già la vittoria in mano, compiaciuta.
Ma quando premetti il pulsante per far uscire il caffè, un getto di acqua sporca aromatizzata al caffè mi schizzò in faccia, mi ritrovai a tirare un urlo ridicolo e a desiderare di sparire.
Lui ovviamente scoppiò in una risata divertita. Mi aveva fatto fare la figura della stupida, giocava con me, mi prendeva in giro. Era lo stronzo che è sempre stato.
<Sei contento adesso? Vattene, è tutta colpa tua.>
Sorridendo si avvicinò a me.
<Oh si stellina, sono molto contento. Mi hai rallegrato la giornata.>
Si avvicinò ancora, guardandomi negli occhi. Avvicinò un dito alla mia guancia, passandolo sulla pelle prelevò un po' di quel’ acqua sporca, poi se lo portò alla bocca e assaggiò, senza mai staccare gli occhi dai miei. Io mi sentii avvampare.
<Mmh, manca un po' di zucchero.>
Sorrise e se ne andò. Lasciandomi lì, con la bocca spalancata e la faccia ricoperta da quella sostanza. Restai lì immobile per almeno tre minuti, incapace di ragionare, poi capii che era meglio darmi una pulita.
Trascorsi quella mattina ripensando di continuo a lui, a quella scena. Rabbrividivo pensandoci e lo odiavo. Lui non voleva essere mio amico, lui voleva solo giocare con me. Quando uscii dal lavoro, mentre mi dirigevo a prendere Noah, ripensai ad Ellie. Avrei voluto parlarne con lei, avrei voluto ridere con lei della mia figuraccia, odiare insieme quell’antipatico. Non avevamo più parlato dopo quella sera alla festa, avrei voluto che mi cercasse lei e mi chiedesse scusa, ma io conoscevo Ellie, probabilmente non si era neanche resa conto di ciò che aveva fatto. Perciò, arrivata a scuola di Noah, mentre lo aspettavo nel parcheggio, presi il cellulare e le inviai un messaggio. Le chiesi se potevamo vederci quella sera, rispose dopo circa due minuti, dicendo che sarebbe passata a prendermi alle nove. Il resto della giornata trascorse in maniera molto tranquilla, papà si stava davvero impegnando per mantenere la promessa che mi aveva fatto, perciò al momento era tutto più facile per me. Trascorsi il pomeriggio in veranda leggendo il libro che avevo iniziato prima che la mia faccia venisse ricoperta di caffè e imbarazzo, sorseggiando latte al cioccolato, mentre papà aiutava Noah con i compiti. Quando gli chiesi se per lui andava bene che uscissi quella sera sorrise entusiasta, poi mi spedii in camera per prepararmi.
<Vai a farti bella scimmietta, non preoccuparti di niente, stiamo bene.>
Era vero, stavamo bene, io ero felice. Avrei chiarito con Ellie, avrei riavuto la mia migliore amica, anche se l’avevo persa per poco. Ci saremmo divertite da morire, e per la prima volta non mi sarei dovuta preoccupare di tornare a casa presto.
Indossai un vestitino verde acqua, legai i capelli in una coda e misi le mie solite sneakers bianche. Nulla di particolare, era solo una semplice uscita con Ellie per parlare, probabilmente saremmo andate nel nostro solito locale per poi finire in un qualsiasi parcheggio a parlare di come le nostre vite vanno a rotoli, finiva sempre così.
Ellie arrivò puntuale, io uscii con un po' di ritardo perché Noah non voleva lasciarmi andare.
<Scusami, Noah voleva che rimanessi a giocare a memory con lui e papà.>
Sorrise, fissandomi, ed io notai che si era messa in tiro. Indossava un tubino nero con un’ ampia scollatura sulla schiena, il rossetto rosso valorizzava le sue labbra ed i suoi occhi luccicavano sotto l’ombretto. Era radiosa.
<Dov’eri finita?>
Mi domandò, ed io mi infastidii capendo che non ricordava.
<Non ricordi vero? La sera della festa sulla spiaggia.>
<Ricordo che sei sparita e Liam ha dovuto riaccompagnarmi a casa.>
<Si, dopo che mi hai versato il tuo drink sul vestito.>
<Ti sei arrabbiata per quello? Non l’ho mica fatto di proposito.>
<Lo so, ma poi hai detto che il vestito non era granché. Era di mia madre, Ellie. Tu lo sapevi, sapevi quanto era importante per me.>
<Oh cavolo, io….io l’avevo dimenticato. Come ho fatto ad essere così stronza? Mi dispiace...davvero.>
Le credevo, leggevo il dispiacere nei suoi occhi. L’abbracciai e lei mi strinse forte continuando a scusarsi.
<Non preoccuparti, acqua passata, non pensiamoci più.>
Mi sorrise, felice, poi mise in moto la macchina e partì. Non le chiesi dove stessimo andando, sapevo che saremmo sicuramente andate al solito posto, il nostro posto. Nel frattempo le raccontai di quella mattina e della mia figuraccia, lei ovviamente scoppiò a ridere.
<Avrei voluto esserci, che scena imperdibile!>
Continuò a sbellicarsi dal ridere.
<Che stronzo lui, però è un gran figo, c’è da ammetterlo.>
Non risposi, mi concentrai sulla strada e mi accorsi che non eravamo vicine al nostro solito bar.
<Dove stiamo andando?>
<Da Liam, a una festa. Oddio non ti dispiace vero? Ho dimenticato a chiedertelo.>
<In realtà non mi va molto.>
<Aly, mi piace la nuova te che viene con me alle feste. Ti prego non uccidere queste vibes.>
Mi fece gli occhi dolci, poi scoppiammo a ridere.
<D’accordo, spero solo non ci sia Mr. Antipatia, non mi va proprio di vederlo.>
Arrivate alla festa mi sentii un po' a disagio a causa del mio abbigliamento, non pensavo che saremo finite ad una festa, non mi ero messa in tiro come Ellie. Ma per fortuna guardavano tutti lei, perciò nessuno si accorse del mio aspetto poco curato.
Quando trovammo Liam tirai un sospiro di sollievo costatando che non c’era Antipatia con lui, per mia fortuna sembrava proprio che non fosse venuto. Dopo aver preso da bere andammo a sederci fuori su un piccolo tavolino con quattro sgabelli.
<Questa festa è un vero mortorio piccola, forse dovremmo andarcene.>
Liam sembrava davvero annoiato, mi domandai se conoscesse qualcun’ altro a parte noi, non sembrava affatto divertito.
<Col cazzo! Ho impiegato due ore per prepararmi, e ovviamente sono favolosa. Sono qui per lasciare che ammirino il capolavoro, quindi noi restiamo.>
Io e Liam ci guardammo senza dire nulla, poi ad entrambi scoppiò una risata, era ovvio che non potevamo rifiutare, Ellie era brava a farsi valere.
<Animiamo la serata, giochiamo a ‘Non ho mai’.>
<Piccola, è un gioco da bambini.>
<Sta’ zitto, è divertente, inizio io.>
Alla fine ci stavamo davvero divertendo, forse anche grazie alla quantità di alcool che avevamo buttato giù.
Ma il mio buon umore svanì, quando una mano calda si poggio sulla mia schiena. Liam ed Ellie alzarono lo sguardo, io non mi girai, avevo già capito chi fosse grazie all’espressione di Ellie.
<Non ho mai? Figo, gioco anch’io.>
Mr. Antipatia si sedette nello sgabello accanto a me, guardandomi, sorridendo.
Lo ignorai, cercando di non guardare nella sua direzione, mentre il sangue mi pulsava alla testa. Non lo volevo lì.
<Okay bene, inizia tu amico.>
Liam lo incitò, ma lui non parlò, continuava a fissarmi.
<Inizio io, concentratevi.>
Ellie richiamò l’attenzione.
<Non ho mai….mmh….fatto sesso con una ragazza.>
Liam buttò giù un grosso sorso, sorridendo, Dylan staccò finalmente gli occhi da me e prese un sorso anche lui.
<Vi ho fregato maschietti!>
Ellie sorrise battendo le mani, compiaciuta.
<Brava piccola.>
Liam le prese il viso fra le mani e la baciò, un bacio interminabile. Ero fin troppo brilla per starmene lì a guardare, e poi dovevo fare pipì.
<Io vado in bagno, voi fate con calma.>
Me ne andai, cercando il bagno, facendomi spazio tra gruppetti di ragazzi ubriachi e coppiette che si sbaciucchiavano sulle scale. Quando finalmente trovai il bagno tirai un sospiro di sollievo, la mia vescica stava per scoppiare. Prima di uscire dal bagno mi guardai allo specchio e mi pentii di essere uscita in quelle condizioni. Sciolsi i capelli, iniziava a farmi male la testa. Poi uscii, dirigendomi al nostro tavolino. Ma quando ci arrivai mi accorsi che non c’era più nessuno lì, entrai a cercarli ma dopo aver girato tutta la casa senza trovarli mi sedetti sulle scale accanto una coppietta e provai a chiamare Ellie al cellulare, ovviamente non rispose. Mi guardai intorno, sperando di vederli, ma niente. L’unica cosa di familiare che vidi tra la folla furono degli occhi verdi. Non avevo nessuna voglia di parlare con lui ma di sicuro sapeva dov’erano finiti Ellie e Liam. Mi avvicinai, interrompendo una conversazione con una ragazza che portava un vestito troppo corto per i miei gusti.
<Dove sono Ellie e Liam?>
Mi guardò infastidito, l’avevo sicuramente disturbato.
<Se ne sono andati.>
<Cosa? Dove?>
<Cosa vuoi che ne sappia io? A concludere quel bacio suppongo.>
<Cazzo!>
<Non essere gelosa, possiamo imitarli se vuoi.>
Stronzo.
Lo guardai male, poi me ne andai e tornai a sedermi sulle scale. Dopo cinque minuti mi raggiunse.
<Qualcosa non va?>
<Ellie doveva riaccompagnarmi a casa.>
Sbuffò, guardò la ragazza con cui stava parlando prima e poi si girò di nuovo verso di me.
<Andiamo, ti porto io.>
<Cosa? No!>
<Vuoi tornare a casa o vuoi rimanere qui seduta accanto a questi due che si sbaciucchiano?>
Guardai quei due, era ovvio che volevo tornarmene a casa ma non volevo che mi ci portasse lui.
<Chiamerò un taxi. Non vorrei rovinare i tuoi piani con Miss tette rifatte.>
Si girò a guardarla e sorrise, poi tornò a guardare me.
<Avanti stellina, andiamocene da qui.>
Fanculo, volevo andarmene.
Mi tese la mano ed io l’afferrai per alzarmi, mi aggiustai il vestito, mentre i suoi occhi verdi mi fissavano. Poi andammo via.
Fu davvero difficile rimanere in equilibrio sulla sua moto dato che l’alcol aveva fatto il suo effetto e mi girava la testa, ma alla fine arrivammo a casa mia. Scesi dalla moto e gli restituii il casco.
<Grazie.>
<Di niente stellina, buona notte.>
Sorrise, io mi girai per andarmene ma poi ci ripensai e mi girai nuovamente verso di lui.
<Perché fai così?>
<Così come?>
<A volte sei gentile e carino con me, altre volte sei un vero stronzo. Perché lo fai? Io…io credevo che potevamo essere amici.>
Mi guardò, poi si allacciò il casco e accese la moto.
<Non importa, lascia perdere, buona notte.>
Feci per andarmene ma mi afferrò per un braccio, continuando a guardarmi dritto negli occhi.
<Stellina noi potremmo essere tante cose. Ma mai amici. Quello mai.>
Mi lasciò il braccio e se ne andò, lasciandomi lì, un’altra volta piena di domande.

Come amano le stelleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora