La corsa del cuore

755 28 0
                                    

Parcheggiai l'auto fuori dalla zona chiusa al traffico e proseguii a piedi.
Camminare da sola in quel buio, con i rombi delle moto che si udivano in lontananza, per un attimo mi fece pensare che era stato un grosso sbaglio.
Ma lo stavo facendo per Dylan, ero lì per lui, per impedirgli di fare qualcosa che metteva a rischio la sua vita.
Sapevo bene che sarebbe stato difficile convincerlo a non gareggiare, impossibile forse, ma dovevo tentare, ero pronta a tutto.
Quando raggiunsi la folla urlante, cercai di individuare la sua moto, il suo viso, la sua felpa nera, qualsiasi cosa di lui.
Ma le persone in quel luogo erano troppe, così come le moto uguali alla sua, se non per qualche minuscolo dettaglio quasi invisibile.
Cercai dentro di me un legame, qualcosa che potesse guidarmi fino a lui, e così mi tornò in mente la leggenda del filo rosso del destino.
Secondo la leggenda, infatti, ognuno di noi nasce con un sottile e invisibile filo rosso legato al mignolo della mano sinistra, l'altro capo del filo è invece legato al mignolo della propria anima gemella. Con il tempo il filo potrà aggrovigliarsi, allungarsi, ma non potrà mai spezzarsi. Così, prima o poi, le anime gemelle si ritroveranno.
Si ritroveranno sempre, a prescindere dal tempo, dagli eventi, dalle paure.
Se una persona è legata a te, troverà sempre il modo di ritrovarti.
Non ho mai creduto granché a queste leggende, le ho sempre reputate solo frutto della fantasia altrui, favole che ci raccontiamo per donare al mondo una sfumatura quasi magica, eppure in quel momento mi concessi di crederci.
Mi lasciai guidare dal cuore, facendomi spazio tra la gente, tra il caldo dei motori accesi, tra i rombi assordanti, tra le gomitate distratte della folla in subbuglio.
Poi, ad un certo punto, eccolo lì.
Il mio cuore iniziò a battere all'impazzata, nonostante conoscessi i suoi lineamenti alla perfezione, lo guardavo sempre come se fosse la prima volta, ogni volta aggiungevo alla lista un dettaglio che mi era sfuggito.
Il piccolo neo sotto l'occhio destro, la piccola cicatrice sul labbro superiore, le ciglia lunghe, il naso leggermente all'insù.
Era come se la sua bellezza crescesse ogni giorno, più passava il tempo più diventava bello, per lo meno ai miei occhi.
Perché per me era il ritratto della perfezione, era come il primo sole dopo l'inverno, come il bucaneve che resiste alla neve, come un fiume che sgorga nel luogo più inaspettato. Avrei voluto prestarglieli, i miei occhi, così che vedesse che non ci sono difetti in quel quadro, che non c'è niente che non vada in lui, che è perfetto così com'è.
Che le sue paure non lo rendono inavvicinabile, bensì unico, e che le sue cicatrici non lo hanno rovinato, ma solo migliorato.
Era tutto questo per me, era un museo, e desideravo tanto ammirare ogni singola opera d'arte.
Mi notò quasi subito, tra la folla, come se il filo rosso legato al suo mignolo l'avesse strattonato per avvertirlo che fossi lì.
I suoi occhi si sgranarono mentre mi guardava avanzare verso di lui, ma non li spostò neppure per un secondo, seduto sulla sua moto aspettando la partenza sembrava un cavaliere su un cavallo che attendeva l'inizio della guerra.
<Cosa sei venuta a fare qui?>
Il suo tono era freddo, quasi arrabbiato, non mi voleva lì e potevo immaginare il perché. Voleva cancellarmi, dimenticarsi di me, l'aveva detto lui. Presentandomi lì non lo stavo di certo aiutando, ma non potevo starmene con le mani in mano, e poi...
infondo non volevo che si dimenticasse di me, che smettesse di pensarmi.
<Se ti lasciassi correre pur essendo a conoscenza della tua condizione, e ti succedesse qualcosa, non potrei mai perdonarmelo.>
<E quale sarebbe la mia condizione?>
Rispose in tono aspro, ed io capii che se mi fossi imposta con arroganza non avrei mai risolto la situazione.
Mi avvicinai a lui ancora un po' e gli posai una mano sulla gamba che stava piegata sulla moto.
<Eri ubriaco quando sei venuto da me.>
Parlai in tono più calmo possibile, litigare non avrebbe portato a nulla, dovevo spingerlo a ragionare.
<Hai detto bene, ero. Sto benissimo ora.>
<Non posso lasciartelo fare comunque Dylan, io...>
Ho paura
avrei voluto dire.
Ho paura per te, ho paura che ti succeda qualcosa.
<Va' a casa Aly, ti prego.>
Il suo tono si addolcì, si trasformò quasi in una supplica, ed io riuscii a leggerci dentro tutto quello che non stava dicendo.
Vai via da me, ti prego.
Non voglio più pensarti, non voglio più ricordarmi di te.
Ed io ero disposta a farlo, ero disposta a lasciarlo andare anche se fosse stato per sempre. Se era ciò che voleva, se non voleva più me, se non voleva più noi, l'avrei fatto.
In quel momento però non potevo, non in quelle circostanze.
<D'accordo.>
Dissi, decisa.
<Te lo dirò solo una volta.>
Mi osservò per un attimo con aria interrogativa, ed io sperai che dicesse qualcosa, qualunque cosa, ma lui non parlò, perciò mi sforzai di proseguire.
<Non partecipare alla corsa, torna a casa con me.>
Mi guardò con occhi tristi, e probabilmente replicai anch'io quello sguardo.
<Non posso stellina.>
Sul mio volto si colorò la delusione, la consapevolezza di aver fallito, e nel suo lessi il dispiacere.
<Vai a casa, per favore.>
Senza dire altro, abbassai lo sguardo e ritrassi la mano che prima lo toccava, mi sembrò quasi di sentire la sua mano sfiorare la mia prima che mi voltassi.
Gli diedi le spalle, e mentre la voglia di piangere mi assaliva iniziai a camminare, ad allontanarmi da lui.
Dopo un paio di passi, qualcosa dentro di me si mosse e mi fece venire un'idea.
Non ero mai stata una che si arrende facilmente, papà diceva che ero nata combattente, che se volevo qualcosa lottavo finché non la ottenevo. Ed era vero, non c'era niente di più vero. Ero sempre stata competitiva e pronta a tutto pur di vincere, e quello con Dylan era sempre stato un gioco.
Un gioco in cui era sempre lui a vincere, un gioco che lui aveva sempre comandato.
Però a quel punto io non volevo perdere.
Soprattutto perché avevo la sensazione che, se me ne fossi andata, non solo avrei perso quella sfida ma anche lui.
Per questo raccolsi tutto il mio coraggio e lo indossai come un'armatura, mentre mi voltavo e iniziavo a camminare un'altra volta verso di lui, trovando i suoi occhi già su di me come se mi stesse guardando andare via sperando che mi voltassi almeno un ultima volta.
Quando lo raggiunsi non parlai, non lo guardai neppure, mi aggrappai alle sue spalle e con un solo movimento salii sulla moto. Mi sistemai più comoda possibile sul sedile, raccolsi i miei capelli in una coda bassa con un elastico che portavo al polso e mi strinsi a lui abbracciandolo da dietro.
<Che stai facendo?>
Mi guardò da sopra la sua spalla, io non accennai a ripensarci.
<Correrò con te.>
Lo sentii irrigidirsi sulla moto, ma nessuno dei due si mosse.
<Sei forse impazzita? Scendi subito.>
<No.>
Anche se fosse sceso e mi avesse presa di peso non mi sarei mossa.
Neppure se mi avesse spinta giù all'improvviso.
Ero ancorata a quel sedile come una nave al fondale del mare.
A quel punto aveva due opzioni, o abbandonava la gara o correva con me.
Io, avrei preferito la prima, ma se decideva di rischiare allora avrei rischiato con lui.
<Dannazione Alya, scendi da questa cazzo di moto.>
<No.>
Ripetei un'altra volta, quelle due lettere erano le uniche che gli avrei concesso.
Il colpo di pistola giunse inaspettato, portandomi a sobbalzare per lo spavento.
Ero così presa da quella situazione che non mi ero accorta dei corridori che intanto si erano allineati sulla linea di partenza.
La corsa era iniziata, le altre moto erano già partite, ma io e Dylan eravamo ancora fermi su quella linea invisibile.
<Merda!>
Imprecò, voltandosi a guardare davanti a lui le moto che iniziavano a farsi lontane.
<Ti conviene partire subito se intendi vincere.>
Dissi, quasi invitandolo a cogliere la sfida.
<Alya...>
<Si?>
Cambiai le due lettere senza neppure accorgermene.
<Tu sei la mia cazzo di rovina.>
Senza neppure darmi il tempo di rispondere o di analizzare quella frase, si sfilò il casco dal polso e me lo porse, lo afferrai con velocità e lo allacciai sotto il mento assicurando il gancio.
<Qualunque cosa accada.>
Disse, accendendo la moto e sgasando.
<Non mollare mai la presa.>
<D'accordo.>
Risposi, mentre il cuore iniziava a scalpitare per la paura e l'adrenalina.
<Tu vedi di vincere però.>
<Eccome se vinco!>
Un minuto dopo il vento dovuto alla velocità mi colpì.
Per un attimo chiusi gli occhi, mentre Dylan faceva lo slalom tra gli ostacoli, poi d'un tratto sentii la moto farsi leggera sotto di me.
Quando aprii gli occhi mi accorsi che le ruote non poggiavano più a terra, la moto era in aria.
Ebbi paura solo per qualche secondo, ma quando tornammo a terra un enorme sorriso si presentò sul mio volto.
Euforia.
Adesso capivo perché gli piacesse così tanto correre.
L'adrenalina che cresceva dentro di me mi faceva provare una felicità smisurata, come quando sei su una giostra.
La moto quasi volava, mentre lui schivava e saltava gli ostacoli, mentre si alzava sulla ruota posteriore in un impennata che mi spinse a stringerlo più forte.
Ed il mio cuore correva con lei, tra salti e capriole, battendo all'impazzata come mai prima d'ora.
Non avevo paura, non più, anzi mi piaceva da matti.
Iniziai a ridere e a urlare mentre il vento portava via la mia voce, mentre l'elastico che teneva i miei capelli si sfilava lasciandoli liberi a fluttuare nell'aria.
Dylan raggiunse il resto dei corridori come se si fosse teletrasportato, e l'estasi toccò livelli altissimi dentro di me.
Li superò tutti senza il minimo sforzo, per un testa a testa finale con Blake che riconobbi grazie al teschio stampato sulla sua moto, dettaglio che avevo notato la volta precedente e che mi aveva provocato i brividi.
Fiera, senza neppure pensarci, alzai il dito medio verso di lui mentre Dylan lo sorpassava appena prima del traguardo.
<Dannazione!>
Lo sentii imprecare dietro di noi, ma avevamo ormai superato quella linea immaginaria che segnava la fine della corsa, mentre una ragazza sventolava il fazzoletto rosso.
Avevamo vinto, ed io mi sentivo percossa da emozioni indescrivibili.
Dylan però non si fermò, continuò ad accelerare immettendosi in strada.
<Dove andiamo?>
Quasi urlai per via del vento e il rombo della moto.
<Non ne ho idea.>
<Che cosa significa?>
Mi avvicinai al suo orecchio per sentire meglio la risposta.
<Significa che non ho mai avuto così tanta voglia di fare l'amore con te come in questo momento, perciò non mi importa dove andremo, mi interessa solo farti mia.>
Sorrisi mentre un brivido di desiderio mi risaliva sulla schiena accarezzando il mio ventre.
<Lo vuoi Aly?>
Strinsi più forte le braccia intorno al suo petto.
<Si.>
<Dimmelo.>
Avvicinai le mie labbra al suo collo e lo baciai delicatamente, poi mi avvicinai al suo orecchio e sussurrai.
<Voglio che mi fai tua Dylan, nei modi più improponibili che conosci.>
<Cazzo.>
Accelerò, superando un'auto dopo l'altra, conducendomi verso quello che ormai consideravo il mio paradiso.
Io, lui e i nostri corpi che si uniscono.

Come amano le stelleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora