Un segno

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<Sveglia stellina, farai tardi.>
Aprii lentamente gli occhi, mentre percepivo baci leggeri sul collo, sulle labbra, sugli zigomi. Non appena la mia vista diventò meno appannata, vidi il suo viso.
Bello come un cielo stellato. I suoi occhi mi fissavano innamorati, come se fossi la cosa più bella da vedere al mattino, mentre io ero certa di avere un aspetto indecente. Quella mattina nessuno dei due si preoccupò di farlo sgattaiolare fuori prima della sveglia di papà, io sapevo con certezza che non si sarebbe alzato, lui probabilmente lo immaginava.
Mi sgranchii mentre le sue braccia mi circondavano la vita, e mi resi conto che dentro di me cresceva il desiderio di svegliarmi così tutte le mattina.
<Vorrei rimanere qui, così, tutto il giorno.>
Dissi, passandogli la mano fra i capelli.
<Anch’io, ma non possiamo.>
Grugnii per sottolineare la mia disapprovazione, purtroppo però aveva ragione. Dovevo andare al lavoro, accompagnare Noah a scuola e controllare le condizioni di papà.
Dopo esserci scambiati una quantità eccessiva di baci, su ogni parte dei nostri corpi, finalmente io e Dylan riuscimmo a staccarci. Lo feci uscire comunque dalla finestra, tanto per sicurezza. Lo guardai andar via, facendo già il conto alla rovescia per quando l’avrei rivisto. Mi aveva detto che date le circostanze non voleva lasciarmi sola, perciò anche quella sera sarebbe entrato dalla mia finestra e avremmo passato la notte insieme. Non potevo che essergli grata.
Una volta lavata e vestita mi avviai verso la camera di Noah per svegliarlo, ma quando entrai notai che non era a letto. Per un attimo il panico mi assalì, ero così iperprotettiva con lui, non trovarlo nel suo letto al mattino era il mio peggior incubo.
Camminai frettolosamente per il corridoio, aprendo tutte le porte, sbirciandoci dentro.
<Noah!>
Lo chiamai, ma niente. Scesi le scale e mi diressi in cucina, mentre il panico cresceva dentro di me. Non appena entrai lo vidi, lì seduto sul suo sgabello con il suo latte al cioccolato davanti, i baffi sporchi. Tirai un sospiro di sollievo e mi avvicinai piano. Solo dopo qualche secondo, ormai raggiunto il bancone, alzai lo sguardo e vidi papà davanti ai fornelli. Una tazza di caffè in una mano, il manico della padella nell’altra, intento a cuocere pancake.
<Papà?>
Si girò quasi di soprassalto.
<Oh buon giorno scimmietta, dormito bene? Faccio i pancake.>
Girai intorno al bancone e mi avvicinai a lui.
<Lo vedo. Come stai oggi?>
Mi guardò rivolgendomi un sorriso allegro, come se fosse la migliore delle mattine.
<Sto bene piccola, e tu? Qualcosa non va?>
Lo guardai dubbiosa, poi presi una tazza e mi versai anch’io del caffè. Mi sedetti sullo sgabello accanto a Noah, presi un sorso dalla mia tazza ma non smisi mai di guardarlo.
<Senti papà...>
<Si?>
<Stai prendendo le tue medicine, vero?>
Mi dava le spalle, ma improvvisamente il suo corpo si irrigidì, la mano che prima spadellava si fermò, il suo sguardo fisso sui pancake ormai troppo cotti. Dopo qualche istante di silenzio li adagiò su un piatto e si girò verso di me, poggiandoli sul bancone, con un sorriso da orecchio a orecchio.
<Non mi servono più, io sto bene, non vedi?>
Ancora una volta, sapevo bene cosa stava per accadere.
Mi voltai verso Noah, controllando se avesse finito il suo latte. Con sollievo notai di si.
<Ehi piccolo, va a prendere le tue cose e aspettami all’ingresso, tra poco andiamo.>
<Lo posso accompagnare io.>
Si intromise papà. Io non staccai gli occhi da Noah, sapevo quanto era intelligente, sapevo che faceva solo finta di non capire quello che succedeva a papà ogni volta, sapevo che avrebbe letto i miei occhi e avrebbe capito.
Come previsto Noah scese dal suo sgabello e corse in camera sua. Io mi girai nuovamente verso papà e senza dargli il tempo di aprire bocca lo colsi alla sprovvista.
<Chiamerò il tuo dottore più tardi, meglio che ti visiti per costatare che tu stia davvero meglio.>
<Ma non è necessario Aly, sto bene, guardami.>
Allargò le braccia e fece un giro su se stesso. Non gli credevo, sapevo che non era vero. Avrei dovuto immaginare che aveva smesso di prendere le medicine, mi ero lasciata distrarre, era colpa mia. Quando c’era la mamma era sempre lei a controllare che prendesse le medicine, lei che organizzava gli appuntamenti con il medico, lei che notava ogni minimo sbalzo del suo umore. Io non ero brava come lei, io non sapevo cosa dovevo fare per occuparmi di lui, nessuno me l’aveva insegnato. Perciò, dopo la morte della mamma, papà aveva iniziato a pensare da solo a tutte queste cose. Avrei dovuto farlo io, avrei dovuto prevedere che sarebbe finita così.
<Aly andiamoo.>
Noah urlò dall’ingresso, riportandomi alla realtà. Abbassai gli occhi sull’orologio e mi resi conto che era davvero tardi, aveva ragione, dovevamo andare.
<Ne parliamo più tardi, devo andare. Ti voglio bene!>
Corsi via senza neanche ascoltare la sua risposta. Decisi che gliene avrei riparlato più tardi, intanto avrei chiamato nonna Anna e le avrei chiesto di passare a controllarlo mentre non c’ero.
Una cosa alla volta Aly, una cosa alla volta.

Arrivai al bar con un po' di ritardo, per fortuna da quando c’era Mason potevo concedermi qualche distrazione. Entrai con il fiatone, a causa della piccola corsa che avevo fatto dall’auto al bar. Con mia grande sorpresa trovai Dylan seduto al bancone, come al solito era il primo cliente del giorno. Mi presi un attimo per ammirare quella scena. Lui appoggiato al bancone mentre sorseggiava il suo caffè e chiacchierava serenamente con Mason, parlavano di alcuni corsi che avevano in comune all’università. Quella scena mi regalò serenità e gioia, nonostante la giornata non fosse iniziata nel migliore dei modi per via di papà, quella scena fece tornare il mio buon umore. Loro stavano legando, avevano messo da parte l’astio del primo giorno. Tutto questo mi rendeva felice, perché volevo disperatamente legare con Mason, e per farlo era essenziale che non creasse problemi con Dylan.
Mi avvicinai e girai dietro al bancone, mentre i loro sguardi si posavano su di me, interrompendo la loro conversazione.
<Eccoti finalmente, Dylan iniziava a preoccuparsi, ho provato a spiegargli che probabilmente eri solo in ritardo.>
Si scambiarono uno sguardo complice ed il mio sorriso si allargò di più.
<Tutto okay?>
Domandò Dylan, leggevo la preoccupazione nei suoi occhi.
<Si.>
Risposi senza dilungarmi troppo, non volevo rovinare il buon umore che era appena tornato.
<Io devo andare, ho una lezione fra mezz’ora.>
Si alzò dallo sgabello e girò dietro al bancone, si avvicinò a me e mi cinse la vita con un braccio. Era così strano poter stare così vicini in presenza di qualcuno, ma Mason ormai sapeva di noi, non c’era motivo di fingere. Per mia fortuna, Mason non era Ellie, non era necessario tenerglielo nascosto.
<Ci vediamo stasera.>
Mi posò un leggero bacio sulle labbra, poi si staccò rimanendo per un secondo a guardarmi negli occhi.
<Stesso posto, stessa ora.>
Risposi, sorridendo.
<Anche stesso letto, aggiungerei.>
Sorrise anche lui ed io gli diedi un colpetto sul braccio in modo scherzoso, con ancora il sorriso sulle labbra. Mi lasciò andare e uscii dal bar.
<Da quanto state insieme?>
Mi domandò Mason ad un certo punto, mentre io avevo iniziato a lavare e ad asciugare le tazzine.
<Da non molto.>
<Questo spiega molte cose.>
Lo guardai interrogativa.
<Cosa spiega?>
<I vostri occhi.>
Il mio sguardo si fa ancora più interrogativo, per quanto possibile.
<Che avrebbero di strano i nostri occhi?>
Sorrise lievemente.
<Sono innamorati. Uno sguardo innamorato si nota solo quando un amore è agli inizi, poi si affievolisce.>
Non credevo fosse vero, ma non risposi. Il nostro amore era puro, era quello vero, non si sarebbe mai affievolito. Fino al nostro ultimo giorno, noi ci saremo sempre guardati così. Con occhi innamorati.

Da quando il bar andava meglio Bill ci aveva chiesto se potevamo fare turni più lunghi e staccare alle cinque. Avevo accettato perché papà stava meglio e credevo non sarebbe stato più necessario che andassi io a riprendere Noah a scuola, inoltre una paga più alta mi tornava utile. Purtroppo però adesso papà non stava più molto bene, perciò dovetti chiamare nonna Anna e chiederle se poteva andare lei a prendere Noah e rimanere a casa con lui fino alle cinque. Per fortuna i nonni erano sempre ben disposti ad aiutarmi, perciò se ne occuparono senza problemi. 
Quando alle cinque uscii dal bar, una volta in auto, decisi di telefonare al medico di papà per spiegargli la situazione e chiedere consiglio. Gli raccontai degli ultimi episodi e gli dissi che aveva smesso di prendere le sue medicine.
<Signorina, purtroppo se si rifiuta di prendere le medicine la soluzione è solo una.>
Sapevo a cosa si riferiva, ed il mio cuore già tremava.
<Non resta che il ricovero. È necessario riabituarlo ad una terapia, se lui non lo capisce da solo occorre aiutarlo a capire. In un centro verrebbe guidato.>
Chiusi gli occhi, con ancora il cellulare all’orecchio, mentre percepivo pugni allo stomaco che creavano un forte senso di vomito.
Papà era già stato in un centro del genere, io avevo dodici anni. Ricordo che lo andavo a trovare ogni giorno con la mamma, gli portavamo alcuni effetti personali di cui aveva bisogno e passavamo un po' di tempo lì con lui nella sala comune. Le persone lì erano fuori di sé. Ho visto cose che una ragazzina di dodici anni forse non dovrebbe mai  vedere. C’erano anziani, uomini e donne di ogni età. C’erano ragazzi e ragazze, e ogni tanto potevi trovare qualche bambino in camice bianco che scorrazzava per i corridoi. Quel posto mi dava i brividi.
Ricordavo bene gli occhi di papà che si spegnevano quando per noi arrivava l’ora di andare. Ricordavo la sua voce che si rompeva, quando ci chiedeva di portarlo a casa con noi. Ricordavo le sue urla, quando ci diceva che non voleva più stare lì. Ricordavo i suoi sussurri, quando diceva: io non sono come loro.
Quello che ricordo meglio erano le mie lacrime. Quando poi tornavo a casa e mi chiudevo in bagno per non farmi sentire dalla mamma, mentre le immagini di quel posto passavano veloci nella mia mente. Le lacrime rigavano il mio viso ed io ripensavo al sorriso di papà che era ormai spento. I singhiozzi mi soffocavano ed io rivedevo i suoi occhi, mentre guardava la mamma e le diceva: non lasciarmi qui.
La piccola me di dodici anni era impotente davanti a tutto ciò, poteva solo stare lì a guardare, sperando che il suo papà sarebbe tornato a casa presto. Poteva solo stare lì a guardare i suoi occhi tristi, che piano piano stavano diventando neri, per adattarsi alle pareti di quel posto in cui non c’era spazio per i colori.
Solo di una cosa ero certa, non volevo più rivivere quei momenti. Adesso forse ne avevo il potere, adesso avrei potuto impedirlo, avrei lottato con le unghia e con i denti.
Papà non sarebbe tornato in quel posto.
Quando chiusi la telefonata con il medico, dopo avergli detto che mi serviva del tempo per pensare a come procedere, mi concessi qualche momento per elaborare tutto. Appoggiai le mani sul volante , accarezzando piano quel tessuto freddo. Improvvisamente, quasi senza accorgermene, scoppiai in lacrime. Mi sentivo così piena, piena di pensieri e preoccupazioni, senza sapere che fare. Tutto questo era troppo per me, non sapevo come sopravvivere. Mi lasciai andare tra singhiozzi e lacrime, e sentii il cuore alleggerirsi giusto un po'. Per stare meglio, lo sapevo bene, dovevo andare solo in un posto.
Quando arrivai davanti la tomba della mamma, ormai le lacrime avevano lasciato il mio volto. Ancora una volta mi ritrovai a parlare ad una fotografia incastonata in una fredda pietra, desiderando con tutta me stesse di ricevere una risposta. Almeno questa volta, per una volta, avevo bisogno di aiuto.
<Ho bisogno di te, mamma.>
Dissi, sedendomi sull’erba bagnata, dopo aver posato un mazzo di fiori vicino alla sua fotografia.
<Ti prego, dimmi che mi senti, dimmi che puoi aiutarmi.>
Come sempre, dopo le mie parole, arrivò solo il vento.
<Non so che fare mamma, tutto va in pezzi, compreso il mio cuore. Vorrei raccontarti tante cose ma inizio a credere che sia inutile parlare ad una stupida pietra.>
Mi alzai, rassegnandomi al fatto che stare lì non mi avrebbe aiutata a prendere una decisione. Non mi avrebbe aiutata ad affrontare tutto. Ero sola, come sempre.
Passai in fretta la mano sui miei pantaloni, cercando di ripulirli dall’erba, mentre riccioli bruni mi ricadevano sul viso.
Fu in quel momento che la vidi.
Una farfalla variopinta svolazzava su quella stupida pietra, vicino la foto della mamma, per poi adagiarsi con grazia sul mazzo di fiori che avevo portato.
Era lei. Era la mamma.
Avevo sempre voluto credere a questa favola, avevo sempre creduto che le anime buone non morissero mai. Avevo sempre voluto pensare che seppur assenti con il corpo, le anime tornavano a vivere sotto forma di animale. Il corpo cambiava, l’anima no.
E se la mamma fosse potuta tornare in un corpo animale, senza ombra di dubbio, sarebbe tornata come una variopinta farfalla. Svolazzando con grazia e bellezza, avrebbe colorato tutti i cieli.
Ci volevo credere.
Quello era un segno.
Lei non mi aveva mai lasciata.

Come amano le stelleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora